martedì 16 maggio 2017

Che Salento vogliamo?



 Il nostro Salento è perennemente nel travaglio, senza reale governo politico, senza visione e senza prospettiva, in balia dei “corsari” del marketing territoriale. Tutelarlo nella sua straordinaria particolarità è il pensiero di alcuni, una minoranza di “conservatori”; molti altri - con la complicità di una maggioranza silenziosa e accondiscendente - lo immaginano diverso inseguendo le mode e la volubilità del mercato.
Il modello Salento, dagli anni Novanta ad oggi, ha avuto vari “interpreti”. Si è partiti dall’idea del “Salento da Amare” e dall’immagine del “parco” si è passati alla megalomania del Grande Salento sino alle odierne accelerazioni di un “modernismo” scellerato disegnato su modelli usurati e usuranti. Si continua a ferire il paesaggio attaccando il suolo agricolo salvo poi celebrarlo, nelle vetrine enogastronomiche, come fonte d’identità e di autenticità. Normale schizofrenia politica? No, c’è molto di più. C’è l’assenza di un piano, di una visione capace di immaginare il territorio nella sua unicità e complessità. Non c’è un “insieme” e fa “sorridere” chi invoca Ibiza e il “briatorismo” come modello da perseguire.
La vetrina del Salento è il Salento stesso, lo abbiamo visto in un recente film, “La guerra dei cafoni” di Davide Barletti e Lorenzo Conte, ci ha mostrato un Salento folgorante nella sua intima bellezza, nella sua naturalità. Direte, non ci può essere la “nostalgia” a governare la politica. Certo, ma alla politica si chiede di avere lungimiranza e spesso la soluzione è più vicina di quanto si creda. Ciò che appare “ordinario” ha in sé la chiave per presagire e organizzare il fare. Custodire il passato è la chiave della bellezza, tessere una visione capace di manutenzione, di cura, di valorizzazione significa perseguire un modello compatibile con l’ essenza del Territorio, con la sua Storia e con il portato della Contemporaneità.
Continuamente assistiamo a fatti emblematici e molti sono i “problemi” in agenda: la ferita della Xylella; il tubo del gasdotto transadriatico, opera considerata strategica dal governo italiano e dall’Unione Europea che dimentica però di “salvare” il territorio dai fumi di Cerano e dalle polveri dell’Ilva. Tubi poi, ce ne sono altri quelli che portano le acque reflue in mare. C’è l’invadenza del fotovoltaico e dell’eolico e quella di villaggi e villaggetti più o meno di lusso che lentamente privatizzano intere porzioni di territorio. Un gran da fare in un Salento che in realtà non sa che fare e che, incredibilmente, perde il contatto con le sue necessità e i “presidi culturali” che potrebbero essere capaci di difenderlo.
Cosa sperare? È possibile immaginare processi di partecipazione dal basso capaci di riflettere sulla complessità e sulle emergenze del territorio? Gli esempi ci sono. Andate a guardare l’enclave del Parco dei Paduli. È incantata questa porzione di Salento chiusa nella sella tra i due “altopiani” da Giugianello a Supersano, cinquemilacinquecento ettari dove l’oliva e l’olio hanno una loro particolarità segnalata nell’Atlante dell’oleologo Luigi Caricato. Sterminata appare la foresta dei Paduli, benché anch’essa colpita dalla “Fastidiosa” mostra la sua misteriosa solennità, invita all’esplorazione e alla scoperta. Il Parco Agricolo Multifunzionale dei Paduli è luogo di sperimentazione, di messa in opera di buone pratiche, frutto e “sintesi” - con “Abitare i Paduli” - di un lavoro fondato sulla passione e sulla dedizione. Un’avventura, un ideale “cammino” denso di Storia, di storie e di suggestioni, sulle tracce di un lavoro che mostra di avere radici profonde, ben curate da un’attività di “rigenerazione” avviata nel 2005, capace, in questi anni, di muovere sensibilità e responsabilità nell’intera comunità. La visone “artistica” è stata ed è la chiave realizzativa. Una visione fondata sul racconto e sulla immaginazione attiva di come il racconto possa tradursi in segni, in segnali, in linguaggi capaci di dare senso al presente e una reale prospettiva volta al futuro.
Siamo nell’anno che celebra i Piccoli Borghi, è questa la chiave per il Salento, che di piccoli Borghi è popolato. Tornare all’idea del Parco allora! Al Salento d’Amare, accordando gli strumenti di governo del territorio: Amministrazioni Comunali, Gal, Sac per dare senso e sostanza al dono della natura e al lavoro di chi nel passato ha abitato e dato segni e conoscenza alla Terra, traendone il beneficio del vivere e della bellezza. A quel vivere, al decoro contadino dobbiamo ispirarci per dare volto al Salento che vogliamo.

La Gazzetta del Mezzogiono –martedì 16 maggio 2017

domenica 7 maggio 2017

La Guerra dei Cafoni o della giovinezza da ritrovare


Su tutto il paesaggio: ammutolisce, ferma i pensieri, pare cucito col filo della nostalgia. Un Salento incontaminato appare, altro da noi, crudo, selvaggio, remoto e concreto. Torrematta c’è, ma non cercatela è giusto custodirla. Poi loro, i protagonisti, con il loro crudele candore, l’ingenuità e gli incanti di una adolescenza declinata - come per i dialetti – nelle diverse personalità dei ragazzi, attori di una “Via Pal” meridiana. Ma la suggestione del romanzo di Molnar subito svanisce. “La Guerra dei Cafoni” il film di Davide Barletti e Lorenzo Conte ha una sua originalità, una forza, una sua propria necessità. È una favola - tratta dall’omonimo romanzo di Carlo D'Amicis pubblicato da Minimum Fax - un “affresco mitico”, fluido, sfuggete, pare impossibile intrappolarlo in categorie preconcette.
Uno spettacolo - visto nel giorno di Venerdì Santo a Cesena - ritengo sia un riferimento più concretamente vicino è il nuovo “Giuramenti” del Teatro della Valdoca. Anche lì in scena una truppa di giovanissimi attori. Una banda da “rivolta” schierata a dire “no” al Mondo, a quello che è stato e a quello che soprattutto è diventato.
Il film di Barletti e Conte, lo spettacolo di Ronconi e Gualtieri sollecitano un pensiero: l’inutilità dell’essere giovani oggi, in un presente privo d’avventura. È necessario un cambiamento e questo cambiamento di percezione di sé deve essere in primo luogo agito e interpretato dai ragazzi e dai giovani.
Le due opere , a mio avviso, proprio su questo insistono: tocca ai ragazzi, ai giovani spogliarsi dell’immagine che il Tempo ha cucito loro addosso. Prima un uso snaturato dell’essere adolescenti, poi eterni giovani: inconsapevoli, piegati dal mercato, indifferenti, isolati nella propria inquietudine, non capaci di comunicare se non nello stereotipo che la comunicazione chiede loro. Privi di futuro, tutti nel dovere di rappresentarsi, pena, il soccombere piegati da un disagio esistenziale che si declina nel bullismo, nell’anoressia, nella vasta gamma di dipendenze offerte da un mercato sempre più vocato al cannibalismo.
L’andatura dei dialoghi nel film è semplice, venata di ironia, di sarcasmo, di tenerezza, non mancano le impennate “sentenziali” così, come accade nella favola, il “senso” si mostra inatteso, si svela rubricandosi nel pensiero. Un pensiero politico? Certo sì!
“C’è poca favola nella politica” dice Davide Barletti raccontando il suo lavoro. Poco “sogno” e pochissima concretezza, semplicità e immediatezza o semplicemente buonsenso, aggiungo io. Questo manca negli scenari sempre più preoccupanti della “devastazione” contemporanea. Questi pochi, poveri, ingredienti.
Sta ai ragazzi, ai giovani, adesso, oggi, subito, sottrarsi al “tradimento” perpetrato da ormai troppo tempo dall’uomo verso l’uomo, dall’uomo verso la terra. Accade da sempre, sembra dirci “La Guerra dei Cafoni”, ma qualcosa si può fare interrompendo il conflitto e inventandosi nuovi, “insieme”, capaci.
La secolarizzazione del concetto di “giovinezza” via via ha agito uno svuotamento. L’adolescenza come “invenzione” della famiglia borghese, come nucleo di affetti; la scolarizzazione di massa come supplenza all’assenza di lavoro e di opportunità; il continuo livellamento del gusto, dello stile, delle mode, dei comportamenti hanno reso il ragazzo e il giovane “impotente”.
Essere testimoni adesso, oggi, subito della propria necessità di trovare ruolo, di tornare ad avere mani, di poter assaporare il puro sentimento dell’avventura, del provarsi è l’atto necessario per smontare l’edificio della “ragione”, di quella “ragione” che da secoli riproduce sempre se stessa, uguale, senza far tesoro della Storia, dei conflitti, della semplicità dello stare al mondo.
C’è un nemico da sconfiggere, sì! È il chinarsi al consenso, all’ordine dato. All’apparenza, alla misura della materia dominante. La Storia è matura abbastanza nel suo perpetrare l’errore sta allora a chi è “immaturo” fondare un nuovo cercare, un nuovo orizzonte, una possibile Pace, una nuova possibile vita.