giovedì 30 giugno 2016

Porca Puttana Pasolini! Che spettacolo!!!




di Mauro Marino

Pasolini mi guarda, la mascherina col suo volto consegnata a fine spettacolo è sul tavolo. Preziosa e muta mi riporta i suoni sentiti, le emozioni, le ferite aperte e chiuse da uno spettacolo fuori dall’ordinario, interpretato da attori atleti del corpo e della parola, speciali nella loro generosità ed efficaci nel rendere l’intimo senso del dettato pasoliniano. “PPP. Passione, progione, pietà e/o Porca Puttana Pasolini” è il titolo dell’“omaggio a Pasolini, al suo essere uomo tra gli uomini” portato in scena dalla Compagnia Io ci Provo all’interno delle mura della Casa Circondariale di Borgo San Nicola a Lecce. Uno spettacolo itinerante tra corridoi, celle, rampe, cortili della sezione femminile, vissuto in piedi di quadro in quadro da venti spettatori per volta, due repliche al giorno dal 6 all’11 giugno.
Il teatro si conquista lo spazio, l’agibilità e lo sguardo: questa è la sfida, sempre, da sempre. Una regola per il teatro fuori che vale molto di più per il teatro vissuto e costruito all’interno di un carcere.
“Fuori” e “dentro” qui si sovrappongono, l’atto libero del teatro muove la voce, spinge il gesto e la libertà la senti, la vedi nell’energia del corpo che hai di fronte, vicino: un corpo recluso, “costretto”, ma non domato, mosso all’attacco nella regola del provarsi sul bilico della rappresentazione. “Fuori” e “dentro”, in sé, fuori di sé e nell’ascolto dell’altro in un flusso di reciprocità.
Entriamo in gruppo, a piedi, in questa porzione di città sempre più presente nella vita culturale della città. Nel primo quadro un grande e pesante cancello ci separa dagli attori, sono due naufraghi stesi in un gommone, indossano delle giubbe salvagente. Guardano il cielo, uno chiede: “Eee… e che so’ quelle?”; l’altro risponde: “Quelle sono le nuvole”. “E che so’ ‘ste nuvole?”; “Bho!”. “Quanto so’ belle! Quanto so belle!”; “Ah straziante meravigliosa bellezza del creato”. In sottofondo Domenico Modugno canta “Tutto il mio folle amore, lo soffia il cielo, lo soffia il cielo…” e loro, meravigliati, ripetono il testo di prima in albanese, la loro lingua. In ciò che rimane sospeso, nel non detto, le storie, la loro vita, le storie e la vita di tanti altri, e noi, saremmo dannati, se non li amassimo, d’un “folle amore…”.
È immediato l’innamoramento per questo nuovo lavoro diretto da Paola Leone assistita dal suo ormai storico sodale Antonio Miccoli. Già dal primo quadro percepisci la forza espressiva raggiunta da questa straordinaria ed unica compagnia di teatro. I livelli di empatia raggiunti, la considerazione della forza dell’atto teatrale, la necessarietà della comunicazione artistica per lenire e sanare la condizione detentiva e renderla “regale” occasione di riscatto e di nuova consapevolezza. Ma al di là di questo, ciò a cui assistiamo è teatro; vero teatro messo in scena da attori, solo quello: attori nel disincanto proprio della lingua di Pasolini. In quel “Bho!” c’è l’abbisso, la vertigine… Quelli di fronte sono i ragazzi di vita, son della pasta della strada, di quel margine e di quello stupore, da lì vengono per farsi attori e attori sono adesso.
Entriamo in una cella piccolissima uno ci racconta del suo viaggio al nord e del “miracolo dei gelati” e pare di assistere ad un frammento de “La Ricotta”; entriamo in un’altra cella, l’incorreggibile guarda il suo televisore, con la musica di Lupin. Ci accoglie così, poi spegne il Tv e racconta di una fuga da casa verso Bologna in cerca di facili guadagni… Poi siamo in una classe dove campeggiano sulla lavagna i versi:  “Ah, borghesia sì, vuol dire ipocrisia: ma anche odio. L’odio vuole la vittima, e la vittima è una”. Già, una. Quella a cui i compagni fanno scherno negando la condivisione della merenda… gesti semplici, carichi, in assoli che si susseguono fino alla catarsi finale del boxeur, del cortile vuoto che accoglie la voce di Pasolini in “Supplica a mia madre”, con in alto le donne alle finestre, dietro le grate, a lanciar leggerezza in forma di petali e la partita di pallone senza pallone in un altro metafisico cortile aperto solo al cielo, solo lì libero… In ultimo le voci di Ninetto e di Totò: “Ma qual è la verità? È quello che io penso de me? È quello che pensa la gente, o è quello che pensa quello là, lì dentro? (e Ninetto nel film indica il burattinaio)”. “Cosa senti dentro di te? Concentrati bene. Cosa senti, eh?”. “Sì, sì… si sente qualcosa che c’è!”. “Quella è la verità! Ma, ssssh… non bisogna nominarla, perché appena la nomini, non c’è più”.
Qui la verità c’è, quella della carne nel teatro, dove il giudizio è impossibile perché magnificato dalla bellezza.

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