martedì 1 marzo 2016

Noi, al riparo dai Giganti



Gli attori di Opera Nazionale Combattenti

«Tutte quelle verità che la coscienza rifiuta. 
Le faccio venire fuori dal segreto dei sensi»

Mago Cotrone



Luigi Pirandello è passione di molti soprattutto tra chi è al mondo più sensibile e fragile; tra loro ho trovato amore sincero nei confronti della lingua dell’autore di Girgenti e della sua complessità narrativa e drammaturgica. Compreso più adesso che nella sua triste e oscura  contemporaneità. Un'adesione dettata dalla necessità di comprendere se stessi e accogliere la propria particolarità. Sarà perché Luigi Pirandello è stato uomo inquieto, dedito a un cercare spinto sempre oltre le consuetudini della rappresentazione, autore che ha consegnato alla letteratura e al teatro la missione del “mai certo”, del continuo interrogare. Pirandello è stato maestro nella conoscenza della psiche, allenato, sin dall'infanzia a scandagliare il proprio sentire e a tirar fuori paure e fantasmi mutandoli in personaggi.
E proprio fantasmi, fantasmi in gran forma, sono quelli apparsi venerdì 19 febbraio, a Lecce, al Teatro Paisiello per la prima cittadina di Opera Nazionale Combattenti. La platea, i palchi e il loggione hanno accolto un pubblico speciale, inconsueto: «Ci son tutti» mi ha detto qualcuno «così come accade nelle grandi occasioni».
Tutti sentimentalmente coinvolti con il lavoro di Principio Attivo Teatro (qui con l’eteronimo O.N.C.) in scena con il terzo atto (mai scritto) de “I Giganti della Montagna” il dramma pirandelliano rimasto incompiuto per la morte dell’autore nel 1936, al "Mito" dei Giganti, Pirandello aveva cominciato a pensare nell'estate del 1928. Certe volte il teatro ferma la penna, rimani lì a decantare ciò che gli occhi trattengono. «A noi basta immaginare e, subito le immagini si fanno vive da sé» dice il Mago Cotrone, ma quant'è difficile esprimerle, metterle su carta, comunicarle, farle divenire atto... 
Le immagini offerte da Opera Nazionale Combattenti sono cariche di evocazioni: la compagnia di giro e i patimenti del dovere drammatico, le paturnie della prima attrice sempre in conflitto con l’altra e con tutti, se necessario e gli ammiccamenti del caratterista con la barzelletta pronta ad ammansire, sollecitando facili risate. Una tessitura fitta di parole tutte tese a significare lo smarrimento, la paura di non farcela, il continuo osare “la sbornia celeste” del partorirsi in scena. I piani di sguardo si confondono, tutto intero lo spazio è preso dagli attori che invadono il buio carichi delle loro cose e della loro desolata dedizione, alla vita, al personaggio e al teatro, emblema loro stessi del sacrificio dell’arte e della poesia nel mondo moderno. Così li voleva Pirandello, così sono in questa drammaturgia curata da Valentina Diana per la regia di Giuseppe Semeraro, così è nella realtà, dove la “qualità” dell’arte è ormai “orgogliosamente” minoritaria. La scalcagnata compagnia d’attori irrompe in corteo dal fondo della sala, la prima attrice è portata in spalla. Attori militanti, occupano il teatro prendendo in ostaggio il pubblico. Si battono per tener desto il vecchio, presente lì dove il nuovo ha la pretesa d'essere nuovo. Sappiamo che non è così. Sappiamo quanto inesauribile è la forza del "vecchio", del "classico" che diviene tale proprio perché capace di non consumare il Tempo, lo attraversa intero e per intero senza mai perdere senso, significato, valenza resistendo dalla sua posizione «agli orli della vita». Lo sappiamo noi, seduti in platea, spettatori delle “spalle” degli attori e dei preparativi di uno spettacolo che non andrà mai in scena preso com’è dall’interrogarsi sul senso stesso dell’essere attore e sul teatro, ma non lo sa il “vero pubblico” quello urlante di là dal velo del fondale che è anche un sipario. Una parabola sul destino del teatro che si scontra con un pubblico incapace di comprenderlo, desideroso soltanto di ridere con uno spettacolo leggero di ballerine e di sciantose. È stato così nella riflessione dell’ultimo Pirandello ma forse è ancora così oggi… ancora di più in Italia con il teatro costretto nell’angolo senza vero supporto istituzionale e con i “Giganti” e “servi dei Giganti” sedotti da un potere senza potere, indifferenti ai patimenti degli "scalognati " attori Straordinari in scena Leone Marco Bartolo, battitore libero con la sua canzone prologo e autore delle sonorizzazioni; Dario Cadei nei panni di un lunatico Cromo, il primo attore; Carla Guido che è Ilse, la Contessa«coi capelli sparsi, color di rame caldo» Otto Marco Mercante, il Mago Cotrone, l’ospite; Cristina Mileti, Diamante, la seconda donna; Giuseppe Semeraro, il Conte impresario, col patrimonio perso per amor dell'arte e per compiacer la moglie. Tutti bravissimi carichi nel “travestimento”, credibili e appassionati in una scena sempre tenuta sul bilico del “teatro nel teatro”. Un plauso merita il sapiente disegno luci di Fabrizio Pugliese.


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