martedì 24 dicembre 2013

La poesia di Alessandra Peluso

Il Tempo è noi! Ci "conta", ma non solo quello: è carne, è respiro, è l'inquieto della mente. Il Tempo custodisce ogni implorare, ogni vagare, ogni riuscire. È festa ed è pianto. Le stagioni dettano i giorni, il tornare dei colori, sussurrano alla pelle il verso. E quello viene, si fa canto, sottile muove alle mani, nell'eventualità di inchiostrature che, rigo dopo rigo, fanno il poeta: il suo stare attento, il suo essere al Mondo, compagno del Tempo. Un amante sempre illuso di possederci, con i suoi calendari, sceglie nomi e mette i mattoni dell'incontro. Fa dimora e accoglie l'abitare del sentimento. Della mancanza.
   La materia della poesia di Alessandra Peluso è in questo cercare di pelle, una sfida al Tempo fatta di soffi, questo sembrano i componimenti della silloge licenziata, nell'agosto 2013, dalle edizioni Lieto Colle di Michelangelo Camelliti.
   Versi densi, traversati da un lieve e levitante erotismo, quello del desiderio di ognuno, lei lo "parla", dentro una frontalità mai "oscena" se mai osceno può essere il desiderio, l'attesa, la speranza dell'altro. Dell'altro in amore.
   Le mani le senti e senti le labbra, senti il venire del sonno e nella veglia l'incombere di Orfeo suggeritore di sfide, di abbandoni, di cadute. Senti la carezza che non viene, sperata dall'umido che invade. Senti la vita: "Vivo in un idillio/ vivo la bellezza di una forma/ desiderata da me e per me/ vivo e mi vivo in un sogno/ vivo la mia vita// i miei perchè".
   Già i perchè...: "Innamorarsi è essere/ in sintonia in dissonanza/ contraddirisi/ raccontarsi bugie/ nascondersi mostrarsi/ accarezzarsi sfiorarsi/ penetrarsi in commistione/ con ogni piccola particella/ di liquido e solido/ tutt'uno/ per non essere sazi mai".
   Un'avventura leggere, leggerla, la scopri pagina dopo pagina e ti ubriaca, ti porta a... "Capire per scoprire ad un tratto/ di non aver capito nulla o giù di lì"... questo è il gioco di "Ritorno Sorgente" questo è il sempre sorgere di chi inquieto trova, sa trovare, l'incantamento, il suono, il dettato che fiorisce in poesia...

lunedì 16 dicembre 2013

La Danza nella Casa di Borgo San Nicola

Libera la pena

Lunedì 9 dicembre ho visto la danza. L’orario dell’appuntamento era insolito: “le 15 e 15. Categorico presentarsi a quell’ora” mi dice Chiara Dollorenzo, la coreografa. Anche il teatro è insolito: la Casa Circondariale di Borgo San Nicola.
Ecco spiegato l’imperativo.
Sai com’è “la procedura per l’entrata ha i suoi tempi”. Arriviamo puntuali, un piccolo gruppo è già in attesa. Consegnati i documenti alla porta e abbandonati i cellulari negli armadietti, sbrigato il da fare, varchiamo la soglia in pulmino.
Il grande portone-diaframma tra il dentro e il fuori si apre e siamo “dentro”. Sarà la luce invernale, ma tutto mi appare più piccolo rispetto alle altre volte che mi son trovato lì.
Vivido, il verde dell’erba isola il chiaro dei muri, delle grade e dei vari padiglioni, due grandi sculture, salutano. Sembra di galeggiare, di stare in apnea. Ospite provvisorio di un luogo dove la provvisorietà è norma: stare nella pena è condizione sempre tesa nella speranza dell’andar via. “Evadere” quanto più è possibile... Il teatro, la danza, la musica, l’arte, il creare... la chiave di piccole fughe attraverso cui costruire un altro tempo, per dare materia e concretezza all’inquietudine.
***
Una breve attesa nel “foyer” della sala spettacolo. Le ultime prove di là dalla porta, “il gruppo ha lavorato per quattro settimane, due incontri settimanali di due ore ciascuno”, m’informano. Entriamo, prendiamo posto, alle nostre spalle il pubblico si infoltisce: accompagnati dalle Guardie Penitenziarie arrivano i “residenti”.
Si fa silenzio
Il sipario rosso si apre, lo accompagnano in due, lentamente scoprono uno, in piedi, al centro, maglietta bianca e pantaloni neri, fa una camminata all’indietro. In bianco e nero sono tutti gli altri che iniziano ad arrivare incrociandosi sul palcoscenico. Vengono, tracciando diagonali, si incontrano, si salutano, fanno piccole prese, vanno in sospensione, tenuti l’uno all’altro. Tentano passetti, proprio passetti, quelli della danza...
La compagnia è composta da 13 uomini, con i corpi propri degli uomini: i muscoli, le pance e tutte le pesantezze dell’età e dello stare nella reclusione. Una grazia inaspettata è quella di cui siamo spettatori, provano il largo di un valzer, ballano insieme, scopriremo dopo che parlano lingue diverse: italiani, rumeni, albanesi disegnano sulle nostre facce la sorpresa.
Uno, come il titano Atlante - quello che Zeus costrinse a tenere sulle spalle l'intera volta celeste - è in posa, al centro: postura del pensamento e della sopportazione del Mondo, intorno prese, salti, attese e molta emozione a fare da fluido dalla scena alla platea.
In tutto, per circa 20 minuti di esibizione, tre variazioni tessute su tre diverse sonorizzazioni: dalla melodia verso la ritmicità tipica del minimalismo.
Cos’è il corpo che danza? É un corpo che sceglie di consegnare l’energia all’altro.
Qui - in questo esperimento donato al Carcere dall’Amministrazione Comunale di Nardò - è una comunità che danza. Un insieme che mette fuori la conoscenza di un Sè corale nell’occasione della riconsegna del sè d’ognuno alla collettività. Non c’è la pena, la colpa a far da medium, c’è la pietas, l’accoglimento, un provarsi dove il cuore e la volontà muovono il corpo nell’aiuto vicendevole, nello scambio perchè “l’abbraccio è aiuto e non si balla solo con i piedi ma anche con la testa” e con il desiderio...

sabato 7 dicembre 2013

Il coraggio dell'attore, César Brie


César Brie in una scena di Albero senza ombra

Abbiamo visto, giovedì 5 dicembre, ai Cantieri Teatrali Koreja, in apertura del cartellone  di Strade Maestre, "Albero senza ombra" spettacolo scritto, diretto e interpretato da César Brie.
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Al pubblico manca la solitudine nell’essere pubblico. L'uno, non sa essere uno e, in compagnia di tanti uno, mormora, cerca l'altro, ride, chatta, guarda il suo i.phone, dialoga via sms.  Inquieto, non sa stare al cospetto di un'opera. Ha dimenticato come si fa, come essere partecipe di un rito. Solo il buio placherà l'irrequietezza. Sarebbe bello, educato, se giungesse prima, quel silenzio, una volta varcata la soglia, entrando in sala. Sarebbe un segno di maturità, salutare - scordando la premura del quotidiano - quell'attore che aspetta, seduto in fondo, di dare inizio al suo atto. Ma è vano sperare, il cinquettare di un twitt giunge a spettacolo iniziato, nonostante le raccomandazioni...
La memoria teatrale è "memoria parallela" per chi è al cospetto del palcoscenico. L'essere pubblico è (deve essere) condizione essenziale, come quella dell'attore: accogliere, accudire, riporre le storie dentro sè. Lasciarle decantare per poi chiamarle, destarle, come per un sogno portarle in luce. Corrono parallele – le cose del teatro - non appartengono più all'ordinario quotidiano, divengono  materia della "terra di mezzo". Sono visione, apparizione, cosa santa. Ammaestramento per le cose della vita.
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L'amplificazione "frigge" in attesa, sottile, costruisce un tappeto sonoro che conta il venire dei passi, li sento, alla mie spalle. Passi che macinano il cammino, percepisci la giungla, l'umido sotto le scarpe...
Si fa buio, per il racconto di una tragedia....
C'è un perimetro di foglie, un sentiero, tutto intorno ad una pesante tela grigia che copre il pavimento del "quadrato" di scena. Tutt'intorno siede anche una porzione di pubblico. Dall'alto, cadono povere cose: coppe di zucca che portano una, farina di mais, altre, castagne boliviane. Poi speculari, due abiti, uno femminile e uno maschile, di quelli del decoro andino, con le tessiture che sul nero, sul rosso intenso, mischiano i colori, nell'ordine dato da mani profondamente sapienti.
César Brie è seduto, scalzo.
Corpo antico, il suo, presente, sempre desto. Capace. Testimone di una "tradizione" teatrale che possiamo ormai considerare "classica". Quella che, con povere cose, con l'essenziale, sa costruire incantamenti, sa intrecciare storie, sa fare eroico l'attore sul filo, in equilibrio, tra responsabilità artistica e impegno civile.
Parlano i morti, in questo spettacolo, e parla César. Due diversi piani narrativi muovono l'intreccio drammaturgico.
La sedia, accoglie il racconto "personale" dell'attore, l'avventura del ritorno nel Continente Sud Americano con il Teatro de Los Andes fondato nel 1991 in Bolivia, a Yotala, vicino alla città di Sucre. Poi, la reazione all'orrore, che trasforma Brie da stimato artista nell'"argentino di merda" che osa sfidare il potere.
Il "non essere codardo" e l'imperativo del dovere di denunciare da sempre abitano nel corpo di Cèsar Brie: la sua ostinazione artistica si fonda su un agire creativo profondamente politico che, nel teatro, ha trovato riscatto alla mortificazione della libertà e della giustizia.
Il "quadrato" di scena - con la sua esile macchineria e un magistrale disegno di luci - è invece il luogo della Storia e delle piccole storie: «L’11 Settembre 2008 nel Pando, regione della giungla boliviana, si è consumato un massacro di contadini. A fine giornata i morti accertati erano 11, centinaia i feriti da armi da fuoco e decine le persone scomparse (tra cui diverse donne e bambini), alle quali nessuno, finora, ha restituito un nome, un volto, una storia», racconta César Brie nel foglio di sala.
"I morti quando parlano fanno qualcosa che non è propio rumore", è una delle prime battute dello spettacolo e siccome "gli occhi non devono niente a cosa non hanno guardato" l'attore si fa medium e dà voce all'Ade. Va e viene dai corpi degli altri, quelli che in comune hanno avuto la stessa crudele fine. Campesinos, ma anche i carnefici, parlano. Uno scavo in cerca della verità.
Prima sollecitata con un documentario "Tahuamanu", quello che via via gli lo ha reso "invalido e zoppicante" nel cuore, mettendo in discussione la sua permanenza in Bolivia, poi la scelta della scena, il suo luogo, per continuare la denuncia e rendere grazia a quelle anime  che ancora aspettano giustizia. “Che volete?" chiede in chiusura, e "il sogno infranto di un testardo", il suo, d'attore, sembra trovare orizzonte nello sbigottimento che coglie il pubblico, zittito dal graffio del suo coraggio.