venerdì 11 dicembre 2015

Lecce, il Salento l'Unesco



Lecce ambisce alla “tutela” dell’Unesco, la città barocca - sempre speranzosa - cerca di mettere ordine dove ancora ordine non c’è, sognando un futuro pari a quello della città ereditata, immaginata nella sua particolarità secoli addietro. Diventare “città patrimonio dell’umanità” significa prima di tutto rispettare delle regole. Ce la faremo? Chissà! In altre “competizioni” nonostante le energie profuse non abbiamo ottenuto buoni risultati, certo si può sempre far meglio, ma l’impressione è che la città non sia veramente pronta. La professoressa Tatiana Kirova - membro permanente della Commissione che si occupa della valutazione della candidatura dei siti - visitando nelle settimane scorse la nostra città ha sottolineato i ritardi del territorio nel fare “filiera”, nell’elaborare uno sguardo d’insieme capace di unire le risorse e le bellezze di Lecce e del Salento per proteggerle dalla schiaffo a cui ogni giorno sono esposte. Ahimè, ha ragione! Ed ha ragione anche quando mette insieme la città capoluogo e la sua provincia, perché quest’insieme è il patrimonio da sottoporre all’attenzione dell’Unesco. L’intero Salento con i suoi alberi, le sue pietre, le sue città prefigurando e agendo una politica culturale e turistica di alto profilo. Così oggi non è! L’industria turistica è diventata la chiave di una svendita che non ha regole, anzi no, una ne ha, è lo strillo del “venite, venite, venite, siamo qui a calarci le braghe. Faremo strade sempre più larghe, (dimenticando di far manutenzione per le esistenti), assomiglieremo a Rimini e le nostre spiagge saranno sempre più a portata d’ombrellone” e via via di scempio in scempio.
Rimarremo incompresi, perché i viaggiatori, quelli veri, (e i commissari dell’Unesco) preferiranno i vecchi tratturi se mai ne resteranno, vorranno annusare il timo e il finocchietto e andare a scovare un dolmen o un menhir se mai ci ricorderemo di proteggerli. Gradiranno l’ombra di un ulivo o di una Vallonea leggendo malinconici i racconti di Cosimo De Giorgi sulla Grande Foresta di Lecce. La malìa di qui, noi vogliamo cacciarla via e loro, i viaggiatori (e i commissari dell’Unesco), quella vogliono trovare. Un Salento magnifico, intatto, misterico, sospeso “tra il meraviglioso e il quotidiano”. Quello sì meriterebbe la tutela dell’Unesco.
C’è ancora, lo trovi se sai cercare, qualcosa è rimasto, nascosto, laterale, dimenticato, ancora intatto. Ma per quanto tempo ancora? Se alzi lo sguardo l’incuria è tutto intorno, minaccia. E allora ben venga l’Unesco se significa disciplina, rispetto, regole per cercare di far riparo a ciò che resta. Per imparare a sentirsi “filiera virtuosa”.
Non è solo essere di un luogo, abitarlo, attraversarlo, non è solo quello. La prossimità con l'altro e con il territorio che “accoglie” deve diventare sentimento culturale. È snob far finta d'essere oltre, di sentirsi cosmopoliti senza aver profondo sentore e sentimento della Terra-Casa. Non funziona, non può funzionare nel divenire e nel farsi degli “atti culturali”, quegli atti che compiamo nella consapevolezza di dare continuità e futuro al sentire della comunità che ci “abita” e che abitiamo. Il dettato identitario è stato (e ancora è) sovraesposto in esercizi che hanno trasformato il progetto per il territorio in mero marketing, esercizio che spesso si traduce in usura di risorse che svuota e deprime l'essenza e l'essenzialità di ciò che è utile alla costruzione del futuro. Ma questi sono discorsi che difficilmente oggi trovano orecchie capaci di accoglimento. Il trend va da un'altra parte: è quello di un'economia che non ha riguardo per i valori di conservazione e per le reali necessità territoriali e questo, un commissario Unesco sa guardarlo e sa anche giudicarlo.

La Gazzetta del Mezzogiorno 11 dicembre 2015

domenica 8 novembre 2015

Difendere Casa Comi è difendere il Salento della Cultura






Dallo scorso settembre Casa Comi, a Lucugnano, è occupata. Il Comitato guidato da Simone Coluccia s’è fatto promotore di una lettera rivolta al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al Ministro dei Beni Culturali Enrico Franceschini per difendere quello che, senza dubbio, dovrebbe essere considerato un “bene comune” della Terra Salentina e del Sud d’Italia perché, l’Accademia Salentina, per “lunghi anni meditata” e fondata dal poeta Girolamo Comi il 3 gennaio del 1948 con Oreste Macrì, Mario Marti e Michele Pierri è uno degli esempi più alti del fare cultura nel Mezzogiorno.

Un fare cultura “meridiano”, puro, “incapace" per molti versi (ed è un merito questa incapacità) di far denaro con la Cultura, nonostante l’economia non fosse estranea alle scelte del barone di Lucugnano. Il “Comitato pro Palazzo Comi” chiede che venga annullato o modificato il bando indetto dalla Provincia di Lecce (ente proprietario dell’immobile e dei beni in esso conservati) che prevede l’assegnazione trentennale a dei privati”. “Un bando – scrivono i promotori dell’occupazione - ricco di imprecisioni, che manca di tutelare in maniera chiara e non interpretabile l’immenso patrimonio artistico, storico e culturale di Casa Comi”. La vicenda del barone Comi è complessa, basta andare a leggere la sua biografia per accorgersi della levatura europea del personaggio e dell’utopia che abitava il suo pensiero.



Il primo numero de L’Albero – voce trimestrale dell’Accademia Salentina – è del gennaio 1949. In quel numero della rivista c’è, in un articolo firmato da Giuseppe Macrì, l’“Invito ad un nuovo Salento”; ancora non ci siamo arrivati e del destino di chi ha sognato (e di chi sogna) una terra al riparo dall’usura e dalla consumazione commerciale pare non freghi alla maggioranza delle genti salentine: amministratori e popolo uniti nella pochezza della visone e nell’insensibilità.  La difesa di Palazzo Comi non è solo la difesa di una biblioteca o della casa di un poeta anche se, in altre province, le case dei poeti sono strumento e leva di promozione territoriale, pensiamo alla Recanati di Leopardi o alle Langhe di Pavese e Fenoglio. la difesa di Casa Comi è la difesa della prerogativa culturale di questa terra, difendere l’esperienza letteraria del Novecento è difendere la qualità di una visione volta al futuro per continuare a perseguire quel “Salento da Amare” che la politica ha mancato di governare e di realizzare. Le stanze dell’Accademia Salentina con i libri, le carte, l’epistolario, gli oggetti, la pregevole collezione di arazzi sono state (e possono tornare ad essere) il luogo, il segno e il motore di una nuova possibilità: agire la cultura per mutare la condizione (anche economica) di una comunità. In questo il sogno e l’utopia di Girolamo Comi che fu fulgido poeta, ottimo operatore culturale e sfortunato imprenditore. Per Comi l’Accademia e la rivista erano legate all’Oleificio, al moderno stabilimento che costruì e che avrebbe dovuto dar lavoro e dignità alla sua gente. Un tentativo di imprenditoria solidale che portò in breve tempo il poeta alla rovina finanziaria. Una vicenda dall’epilogo amaro, nel 1961 la proprietà di Casa Comi passò alla Provincia di Lecce (Ente allora illuminato lo stesso, che a quel tempo, si fece promotore del Premio Salento) il poeta ne divenne custode e bibliotecario fino alla morte nel 1968. Oggi con un Ente Provincia in disarmo Casa Comi rischia di non avere futuro, il passato glorioso di quell’avventura che ha visto protagonisti nelle stanze di Lucugnano Maria Corti, Oreste Macrì, Mario Marti, Vittorio Bodini, Vittorio Pagano, Rina Durante, Vincenzo Ciardo, Luigi Corvaglia, Enrico Falqui, Ferruccio Ferrazzi, Alfonso Gatto, Michele Pierri, Alda Merini, Luciano Anceschi rischia di non avere più epigoni. Tanti e tanti altri giungevano in quello sprofondo di Sud e in quelle stanze “trovavano amiche anche le ombre”. Un modello da rilanciare, da perseguire perchè Lucugnano sia di nuovo meta di pensiero, di pratiche e di “utopie”.

Mauro Marino, La Gazzetta del Mezzogiorno 8 novembre 2015

mercoledì 7 ottobre 2015

W Barbablù





La Compagnia “Io ci provo”, formata da detenuti della Casa Circondariale di Borgo San Nicola di Lecce ha portato in scena al Teatro Paisiello, martedì 6 ottobre, lo spettacolo “Happy Birthaday Barbablù”, ideazione e regia Paola Leone.

In scena Gaetano Spera, Maurizio Mazzei, Giuseppe Ballabene, Cristian Pellizzieri, Gaetano D’Elia, Fiodor Gjoni, Alfonso D’Oriano, Leonardo Costa, Andrea Rossini, Andrea Casamento, Robert Dalipi e Gianluca Rollo.


 
Il teatro è teatro quando nell'atto interroga la natura stessa del suo essere teatro e la vita, nel filtro della scena, decanta il senso, lo chiarifica, lo rende segno e significazione.
A questo abbiamo assistito, martedì 4 ottobre, nel ritorno sul palcoscenico del Paisiello della "Compagnia Io ci provo" diretta da Paola Leone che, dal Teatro della Casa Circondariale di Borgo San Nicola - certamente il miglior laboratorio attoriale della città di Lecce - è tornata ad incontrare il pubblico (tantissimo e tutto in piedi alla fine dello spettacolo) con "Happy birthday Barbablù".

Barbablù. Quello delle fiabe? Non soltanto. Barbablù, un uomo - un attore - di "altro livello", un uomo che "sa dimenticare benissimo se stesso". In scena (solo in quella?) "solo come un dio". Nonostante i clamori intorno, la festa, i balli, le luci, i coriandoli, i bellissimi costumi, lui è solo, compare in potenza di corpo e di voce nella meraviglia di uno smoking e si racconta (e viene raccontato) dialogando con un bastone: quello che l’ha forgiato.

"L'amore è un urto doloroso" il teatro deve necessariamente esserlo e questo rito corale nulla risparmia. Una compagnia di attori maturi, forti, certi. Nessun balbettamento, nessuna leziosità. Nessun arretramento, nessuna soggezione. Solo una straordinaria libertà (e che altro sennò?) declinata in gag-danzate che di volta in volta accompagnano il pubblico nella vertigine di un testo portato dritto, detto con fierezza, con autorevolezza!

Una scena vuota, un velatino taglia in due il palcoscenico, diaframma impercettibile, artificio valorizzato dal sapiente disegno delle luci. Appare e scompare: sogno e realtà, rimando di memoria e presente. "Guardare ed ascoltare" ci forma, ci fa alla vita, cos'altro guida l'esperienza? Noi siamo ciò che guardiamo e ciò che ascoltiamo! Ci “inventiamo le mani per accarezzare la bellezza”, ma non sempre ci riesce. Non sempre, e la tristezza è lì, al limite, plasma l’attesa. “Chi non ha pietre scagli la sua colpa”, la verifichi nel confronto con il mondo, sconti la sua pena, si salvi dal pregiudizio. E sappia offire nuovo sguardo e nuovo ascolto. Questo serve per rinnovare le storie. Questo serve per rinnovare la vita. La nostra e la loro, in libertà! Che altro sennò?

Lo spettacolo torna in scena sabto 17 ottobre, alle 21, al Teatro Comunale di Novoli
 
Mauro Marino


Progetto e Produzione: Io ci Provo, Factory Compagnia Transadriatica; Ideazione e regia: Paola Leone; Aiuto regia: Antonio Miccoli; Drammaturgia: Collettiva; Collaborazione artistica e Drammaturgica: Giuseppe Semeraro; Cura del progetto: Gianluca Rollo; Costumi: Bianca Maria Sitzia; Luci: Davide Arsenio; Elaborazione video e suono: Stelvio Attanasi; Progetto Grafico: Simone Miri; Foto e video: Mattia Epifani.

venerdì 18 settembre 2015

Giobbe, la poesia e le stelle. Per Hana-do Teatro




Un bozzetto di scena di Guglielmo Scozzi


di Mauro Marino

Il cielo è buio, stelle e stelle, la campagna, appena lasciata la strada statale 275 alla rotatoia per Tricase, ridiventa campagna dirigendosi verso Castiglione.
Il buio è buio, le stelle stelle e ancora salva pare sia la dimensione del piccolo villaggio dove è ancora concesso a due attori di ritirarsi a studiare; dove ancora le relazioni misurano il possibile e la palestra di una scuola comunale riempie le assenze destinandosi al teatro per volontà di un sindaco illuminato, come lo fu il postino di Holsterbo che diede casa all'Odin Teatret. Giorni e giorni di prove, tanti... per questo "Waiting for Job_resistere è amare" portato in scena da Antonio Palumbo e Manuela Mastria al debutto con Hana-do Teatro.
E allora, se il teatro è atto che si incarna nel fare dell'attore, l'opera prima a cui abbiamo assistito lo scorso sabato 12 settembre, accolti in uno spazio di "sacrificio" - un capannone in disuso della della Cooperativa Nuova Contadina di Andrano - è certamente teatro.
Finalmente una scena libera dalla narrazione. Una scena colma di poesia, dove il verso si declina con l'intero del corpo e l'agire teatro riconquista il suo indeterminato per farsi pura visione.

Un recinto scarno, in piano, essenziale, tagliato in un perimetro imbiancato come su una tavola da disegno (i bozzetti preparatori, realizzati da Guglielmo Scozzi, raccolti in un album, possono essere guardati seduti su una sedia allestita su una bascula alla fine dello spettacolo). Pochi i colori: bianco nero, grigio, avana, rosso, la lucentezza del metallo della "porta" che limita lo spazio sul fondo e la cenere che via via tutto ricoprirà...
Abbandonarsi per cinquanta minuti, per i "viziati" di oggi non è facile, ma il teatro chiede allo spettatore proprio questo: sospendere il giudizio e farsi desti. Darsi interamente al dono.
Ecco, schiara, appare... Fare la scena, dis-farla, menare colpi precisi, calci, pugni, spinte, lotte per sostanziare con i rumori e con i suoni (il tema musicale è di Gaetano Fidanza) ciò che lo sguardo coglie, come quello più piccolo del frantumarsi tra le dita dei gusci di arachidi, gesto che torna nel corso dello spettacolo, come un acquietamento, uno scandire il tempo delle attese, di attimi eterni, come eterno è il tempo che ci separa da Giobbe e dalla terra di Uz dove egli viveva. Giobbe è la prova con cui si confronta la drammaturgia di Palumbo: l'uomo integro e retto, simbolo di giustizia e di pazienza, temeva Dio ed era alieno dal male con rassegnazione sopportava molestie, ingiustizie e tribolazioni, personificazione del giusto che soffre mentre i malvagi prosperano, e che tutto sopporta inchinandosi al volere di Dio. Un uomo caparbio nel suo resistere. Come adesso noi... Come questo teatro che nonostante tutto, osa: "La lingua muore. S’inarca e grida fino a tacere. La sfida è dimenticare, cadere. Cadere e dimenticare. Dimenticare e cadere (...) Tutto tace. Non si vede anima viva. Nessuno a cui chiedere. Il mondo mangia il mondo. In silenzio. Il vento, fuori, muove qualche ricordo tra i rami. Un gelso, l’albero che salivamo per addolcire le labbra e toccare il cielo. Ma tutto tace. Anche il cielo, di là, che rincorri affamato...". Questa la condizione dei "sensibili" nel nostro tempo...  A quest'allerta il teatro ci chiama.

venerdì 11 settembre 2015

Le mani al Mondo



Stiamo, soltanto, oltre ogni dover fare
Fare, quando è necessario fare.
Quando il fare è sorgivo, cosa dello stupore.
Quella, la poesia, carezza la schiena
piano sussurra, fa canto, inanella parole
le lega… Poi sta a noi l’impasto
far frolla, cuocere il senso…

Nelle mani la sapienza
dietro ogni cosa presenti, quanta memoria accumulata
in ogni piccolo gesto, in ogni costruzione
poi si ritraggono e riposano, nell’attesa.
Il lavoro, il lavoro necessario
è nelle cose “piccole”.
Pulire una strada, aver cura d’una aiuola
tenere bello il bello, la cosa pubblica
è il compito moderno.
Far manutenzione, tenere vivo ciò che è vivo!
Ed ecco che uno spazzino è più importante di un avvocato, di un onorevole
un giardiniere può quanto un medico, un cantoniere è risorsa vitale
e il nuovo sarebbe in ciò che abbiamo già…
e quanto lavoro c’è da fare, quanto…
tanto che tutti saremmo chiamati a sbigar cause, a curare aiuole, e strade
e case abbandonate, e scuole, e argini di fiumi…
Tutto ciò che crolla e fa pericolo nell’ordinario della cronaca
Di un Mondo che non sa più essere Mondo.