domenica 27 agosto 2017

Notte della Taranta 2017. Vince la musica, tuttavia...


Si, ci sono cose che mi hanno convinto, bisogna essere sinceri! Tornare a riflettere, a riconsiderare il proprio pensiero è esercizio sano. Intatto rimane l'impianto della mia riflessione sulle involuzioni di un percorso - quello della Notte della Taranta e soprattutto della Fondazione che la guida - in gran parte incompiuto nelle sue prerogative relazionali e di consolidamento dello spirito di comunità. La musica vince sempre, quelli che l'hanno "fatta" sul palco di Melpignano son musicisti e interpreti capaci e generosi, "te core" come solo i musicisti sanno essere.
Bravo Raphael Gualazzi con la sua sobrietà urbinate, bravi gli strumentisti che ha scelto per dare corpo alla sua idea interpretativa della tradizione musicale salentina: ragtime, svisature e fughe solistiche, variazioni soul, afro cubane e "latine"... hanno funzionato nella contaminazione toccando in alcuni brani punte alta di capacità creativa... Bello il pianoforte, bella la tromba, belli i sassofoni e le congas... Un'edizione d'ascolto, sarà perché la seguo dalla mia poltrona, ma la mescla jazzistica serve, aiuta l'ascolto e l’abbandono.

Tuttavia...

"Nu me suonati cchiui ca su guarita, la grazia me l'ha fatta stamatina" canta Enza Pagliara e viene da pensare alla Puglia Felix di cui la Notte di Melpignano è emblema così almeno pare sentendo il Governatore di Bari… è guarita? 
No, non credo lo sia… non è più quella ostaggio della “Speranzosa Parola Vendoliana”, quella d’adesso è “punta” da un narcisismo ancora più virulento. Chissà se mai sarà capace di farsi consapevole, distratta, ubriaca, presa com’è da sé, ora che è la stella del turismo, specie qui nel nostro Salento, la malattia mostra tutta la sua gravità…

Ha ancora bisogno di suoni il Salento, di accudimento popolare (ma dove trovarlo sincero, partecipe, fattivo?), di attenzione e di pratiche capaci di decantare l'ubriacatura di questi anni... Di scrollarsi di dosso la megalomania dei suoi finti taumaturghi e di inventare una diversa economia nel fare e produrre cultura. Questo preme, nel Salento, in Puglia ma anche in Italia, in Europa, nel Mondo... Colmare il baratro dell'insensibilità, della deriva civica, dell'odio che avvelena la politica e la convivenza tra le persone... Non basta la parola "pace" ad uso e consumo del conduttore o della star di passaggio... Non basta... Non serve quel bellissimo palco con le luminarie, serve altro. Non serve l’ingombrante leziosità della danza (meglio non parlarne). Non servono i bellissimi abiti di "Silente". Ecco si, "silente"… Fare silenzio, pausa, imparare dalla musica, accordarsi, mettersi in ascolto e ripartire, tornare alla semplicità, alla relazione, veicolare profondamente il messaggio d'amore della Pizzica, la rabbia, la protesta, il rammarico, la canzonatura del “maschio” e del Potere. La materia c’è basta capire che una “ronda” non è quella che si consuma sul palco è altra cosa, altra sfida, altro costruire…


Odino, la Taranta e noi. Due libri per riflettere

di Mauro Marino

Due recentissimi libri ci accompagnano in una riflessione sulle vicende e sulle sorti culturali del Salento: "Odino nelle terre del rimorso" di Vincenzo Santoro (Squi/libri) e "Lettere da una taranta" di Raffaele Gorgoni (I Quaderni del Bardo).

Due libri dove troviamo il “prologo" e l'"epilogo" di una storia ormai lunga cinquant'anni.
Nel primo ci troviamo al cospetto di un Salento ancora "arcaico" svuotato e ferito dall'emigrazione, vi scorgiamo i segni di una singolarità ancora "autentica"; leggendo il secondo possiamo invece comprendere come quella singolarità è quella "autenticità" siano state, in particolare negli ultimi vent'anni, profondamente tradite, non "governate" è in ultimo svendute, trasformate in "brand territoriale", mercificate in un prodotto che nulla ha a che vedere con i processi culturali utili alla crescita e al consolidamento valoriale di un territorio.

Nel libro di Vincenzo Santoro è documentata la vicenda che vide la compagnia dell’Odin Teatret diretta da Eugenio Barba residente, tra il 1973 e il 1975, a Carpignano Salentino.

L’incontro tra due diversissime comunità: quella degli attori (in cerca di teatro) e quella del paese ("fermo" in attesa di un destino altro è diverso). Un lavoro sottile e spontaneo di tessitura relazionale, di scambio virtuoso di linguaggi, di visioni, l’avvio di quella "stagione del baratto" emblematica di un modo altro di concepire il teatro, la costruzione drammaturgica ma anche e forse soprattutto la possibilità per il teatro di farsi azione politica, di completare nella comunità il suo essere intrinsecamente comunità.
Con i corpi e le voci degli "stranieri" dell'Odin protagonisti di quella vicenda furono le persone di Carpignano e quelle che lì si recarono per prendere parte ai "riti di scambio" messi in atto dal gruppo danese. Nel corredo fotografico del libro incontriamo un "giovane" Uccio Bandello e un giovanissimo Luigi Lezzi. Leggiamo di Luigi (Gino) Santoro e riviviamo il clima di un’Università di Lecce traversata dalle istanze e dalle necessità del movimento studentesco. Vediamo gli attori mischiarsi al pubblico e il pubblico farsi attore, vediamo ancora quelle che forse sono le prime immagini della Pizzica danzata in piazza. Preziosissimo in questo è il DVD allegato al libro che ripropone il film "In cerca di teatro. L'Odin Teatret di Eugenio Barba nel Salento" realizzato da Ludovica Ripa di Meana nel 1974. Persone, segni, "travagli" divenuti significativi e determinanti con ruoli ed esiti diversi nel Salento contemporaneo.
Più in generale possiamo oggi dire - confortati dal lavoro di Vincenzo Santoro - che quel l'episodio fu la spinta che avviò con più consapevolezza il lavoro di chi nel "Culturale" scorgeva l'opportunità di un modo altro di fondare l'azione politica (nel Salento e non solo nel Salento). Molte cose furono "confermate" dall'incontro con l'Odin, molte motivazioni artistiche trovarono in quell'esperienza sponda al desiderio e all'intuizione creativa. Molte tensioni spontanee trovarono l'opportunità di strutturarsi, di declinarsi, di oggettivarsi. Ci si accorse che i canti, le danze, l'assetto drammaturgico dei riti religiosi e di quelli popolari erano ancora materia viva, "dormiente", da risvegliare, da muovere in favore di una affermazione dell’identità e della particolarità territoriale.
Un'identità sino ad allora storicamente sconfitta, povera e dannata, presa dalla soggezione "sottoculturale", buona solo a motivare ricerca antropologica, ma poco altro. Un'identità da rimuovere, da scordare, stigma più che segno di un Popolo senza voce. Questo la "modernità" chiedeva alle genti del Sud. Farsi operai significava dimenticare, omologarsi.

Sono trascorsi gli anni e l'esperienza odiniana ha incubato il seme; la fioritura - spesso inconsapevole di quel l'origine - ha dato i suoi frutti. Tanti. Sarebbe interessante approfondire ciò che è accaduto a Lecce dal 1975 in poi per avere un quadro della presenza e dell'attività creativa maturata sotto l'ala del "Terzo Teatro" nel Salento, ma rinviamo questo approfondimento, per guardare agli anni Novanta, gli anni della maturazione ma ahimè, anche, gli anni che vedono manifestarsi i primi segni del declino: quella che sino ad allora era stata un'istanza squisitamente culturale s'è fatta spettacolo. Non condivisione, non processo partecipativo, ma spettacolo. La circolarità, l'essere corpo di attore, di musicista con e tra i corpi della comunità, testimone con e tra testimoni ha lasciato spazio alla frontalità del palco. Un palco via via sempre più grande, via via sempre più fagocitante, fino a giungere al monster melodico-moderno del "Concertone" di Melpignano.


La Notte della Taranta personalmente l'ho profondamente amata. L'ho intesa come una speranza. Lo è stata, moltissimo ha dato alla crescita del Salento, ma tante sono state le mancanze e nel corso degli anni, edizione dopo edizione, palese è stato il bluff. Lo svela la Taranta stessa, "io presente e narrante" nel libro di Raffaele Gorgoni che con ironia e competenza di ragno, abituato alle tessiture e alle reti, smonta il castello della "Puglia Felix".
La Notte della Taranta è oggi un fenomeno svuotato di valore, culturalmente ininfluente. Un vuoto evento "glamour". Emblema delle occasioni perdute e del fallimento di una istituzione culturale, la Fondazione presa a modello delle tante altre Notti (grandi e piccole) che animano l’estate salentina. Non bastano le "parole pannolino" (quest’anno la parola è “pace”) per dare sostanza è pertinenza ad un evento, c'è bisogno di lavoro, di ricerca, di costanza operativa per dare corpo e valore ad un processo virtuoso. Un evento che paradossalmente nulla ha a che vedere con la musica e la tradizione salentina, quella ha saputo camminare da sola. Aveva iniziato a farlo già prima dell'invenzione melpignanese, oggi gode di buona salute proprio perché è cresciuta coltivando sensibilità diverse e un forte senso di autonomia critica e produttiva.
Senza nulla togliere alla bravura e alla specificità di chi è chiamato a dirigere, a costruire, a suonare il Concertone bisogna avere l'onestà intellettuale di riconoscere il fallimento della prerogativa di questo evento e più in generale di un modello istituzionale che riduce la cultura a strumento di promozione turistica, sacrificando lauti finanziamenti pubblici e dimenticando di tutelare la sua natura, il suo portato, la sua intrinseca fragilità.