venerdì 18 marzo 2016

Ilaria e il fare cultura a “distanza ravvicinata”



È benedetto il momento in cui sei travolto dall’energia dell’altro, quando ti sorprendi e di fronte ti trovi persone capaci di una visione. Una visione loro stessi per la tua che si completa nell’incontro: il fare con il fare, il dono che aumenta il dono.
Capita abitando al Fondo Verri, meta di progetti, di proposte, di desideri… Molte volte indeterminati, acerbi tentano l’esserci, una forma, una “compostezza”, in un annuncio, su una locandina, per il tempo necessario alla condivisione.
Una mattina l’appuntamento è con Ilaria Caffio, non la conoscevo, di lei avevo solo letto in una recensione di Antonio Zoretti che riguardava un ciclo di incontri organizzato alla libreria Fahrenheit di via Don Bosco a Lecce.
Di Ilaria mi sorprende subito la determinazione, il suo voler contribuire al rinnovamento delle “cose”, essere presente nel quotidiano, nelle tessiture culturali della città da militante attiva. Strano lavoro quello della cultura, fatto di intuizioni, di intimità e di relazioni, di incontri da mutare in “opera”.
Il suo progetto ha un titolo intrigante: “Filosofia a distanza ravvicinata” gli appuntamenti pensati per il Fondo Verri un sottotitolo ad hoc: “Sul tempo dello scrivere” cinque martedì per indagare “Il viaggio delle parole tra scena e retroscena”. Cinque serate speciali nel loro tessere insieme sensibilità, discipline, esperienze diverse.

Terra rossa, terra di tutti



Dispiace che il sindaco Paolo Perrone si mostri contrario alla nascita di un nuovo luogo di socializzazione culturale nell’ex asilo “Angeli di Beslan, nel quartiere “Rudiae-Ferrovia” a Lecce. L’occupazione degli spazi non fa parte della sua cultura politica ma sarebbe opportuno allargare la visione e considerare quanto importante sia la possibilità, per le persone, di sentirsi insieme nella gestione e nell’animazione di un luogo. Fa bene a loro e fa bene alla città, cresce la consapevolezza dell’essere comunità, rompendo l’assedio della solitudine che attanaglia molti e amplia la responsabilità dei cittadini nei riguardi del “bene comune”.
In tanti anni di attività sul fonte dell’operare culturale sono convinto che la creatività e la conoscenza hanno bisogno di autonomia progettuale. Di desideri e di pratiche capaci di valorizzare le spinte individuali per mutarle in opera, in relazioni. Cose, che un’Amministrazione Comunale, con tutta la buona volontà possibile, non può garantire; cose, che solo la pluralità dell’ascolto può rendere vive. Vasta e sempre crescente è la domanda di iniziativa nell’ambito culturale e la nostra città, pur godendo oggi di numerosi contenitori, non rende visibile questo “sotteso”.
Un asilo (o qualsiasi altro luogo) abbandonato è un “bene comune”, crea disagio vederlo preda del degrado e dell’incuria; è una ferita nella vita sociale di un quartiere; un vuoto da colmare. E allora, se l’Amministrazione pubblica non è capace di porre rimedio è un dono che l’autonoma iniziativa dei cittadini sia in grado di riportare a valore ciò che pare “dimenticato”. Così hanno fatto le persone che in questi giorni hanno ripulito e reso abitabile quello spazio della periferia, in via Franco Casavola, all’inizio di via Monteroni, sull’angolo per viale Grassi.
Uno spazio ritorna agibile con una gamma di proposte che danno lustro al progetto complessivo della città. Non un ghetto ideologizzato ma “un laboratorio collettivo di progettazione territoriale e formazione” si propongono gli occupanti del “Terra Rossa”, questo il desiderio: dare vita a una “Università Popolare”. Termini (“rossa” e “popolare”) che evidentemente spaventano i nostri amministratori, nonostante nel recente passato ci si sia confrontati con l’idea della Capitale Europea della Cultura, con una proposta tutta incentrata sul valore sociale dell’agire culturale.
Sarà una deformazione professionale ma credo che il nodo educativo sia centrale. Utile è farsi delle domande, ancora più utile trovare delle risposte.

sabato 5 marzo 2016

Santalucia, requiem




L'insegna del Cinema Santalucia

Giorni fa per celebrare l’Oscar al Maestro Ennio Morricone in televisione è stato trasmesso il film “Nuovo Cinema Paradiso”, tutti conoscono quella straordinaria storia di passione e di formazione, che riguarda il cinema e la sala di proiezione.
Guardandolo il pensiero è andato a quegli spazi che anche nella nostra città hanno accolto la “macchina dei sogni” per poi via via svuotarsi di funzione e di senso. Morire proprio, perché un cinema, un teatro, una biblioteca, qualsiasi spazio culturale muore una volta destinato a qualcos’altro.
Son morti l’Ariston e il Fiamma trasformati in una sala bingo e in un negozio di intimo, è morto l’Odeon in attesa di chissà cosa e ultimo in città è morto - tre anni fa - il Cinema Santalucia, di ieri la notizia della prossima demolizione del fabbricato che fu costruito per accoglierlo. Un vero e proprio scempio come nelle ultime scene del film di Tornatore che mostrano la distruzione della sala che aveva accolto le fantasie del piccolo Totò e di Alfredo, il proiezionista divenuto cieco.
Già, quello del Santalucia è uno spazio pensato, progettato, nato proprio come cinema, come spazio di condivisione, si vedevano le foto del cantiere, con la strada ancora sterrata, quando eri in fila al botteghino. Percepivi, guardandole, l’avventura di chi l’aveva disegnato, realizzato, voluto, quel cinema. Direte, erano altri tempi: il cinema attirava, la gente s’affollava, c’era mercato.
Sì, c’era anche iniziativa, progetto, un’imprenditorialità che investiva scommettendo sulla cultura. Oggi ciò non esiste, o quanto meno è cosa rara, nessun privato si sognerebbe di investire denaro costruendo da zero un cinema. Ed è proprio per preservare questa “particolarità”, che l’Amministrazione Comunale avrebbe il dovere di rigettare il progetto presentato dalla società che in quel luogo vuol costruire una palazzina con box, negozi e uffici. Certo, la memoria scolora, passate le generazioni nessuno ricorderà cosa c’era lì, ma questa è una città che non sa guardare se stessa, che non sa immaginarsi, glorifica il Barocco ma non sa portare a valore il suo patrimonio architettonico più recente, quello realizzato nel primo e nel secondo dopoguerra con l’allargamento della città fuori le mura del centro storico. Il Cinema Santalucia è parte di quella storia come lo è l’intero quartiere di Santa Rosa luogo di grande invenzione urbanistica, dimenticato, reso laterale, periferia di non si sa cosa… O ancora, il Museo Castromediano ospitato tra le mura dell’ex Collegio Argento completamente ridisegnato negli anni settanta dall’architetto Franco Minissi, altro luogo di cui presto scriveremo il necrologio. Storie “marginali”, che non contano nella nostra città. Eppure storie importanti, vera leva di bellezza se solo si volesse trovar bellezza.

I miei primi ricordi del Santalucia vanno indietro nel tempo, agli anni sessanta, quando il cinema era fatto di un’unica grande sala con la galleria che aveva una balconata di legno grigio. Una sala misteriosa, fumosissima, trasgressiva per chi la domenica era solito frequentare le matinée dell’Antoniano.
Il Santalucia era altra cosa meta delle prime “visioni” in libertà, allontanandosi da casa, con gli indiani, i cow boy, i gangsters e le prime “pruderie” con la paura che qualcuno si sedesse a fianco con il cappotto sulle gambe per tentare toccamenti o chissà che…

E poi i primi film guardati con consapevolezza, abbandonandosi alla bellezza del racconto cinematografico, con la voglia di non vederlo mai finire, il film. “Barry Lindon” di Stanley Kubrik, i “Duellanti” di Ridley Scott, momenti memorabili di abbandono, di profonda percezione creativa e creaturale; se il cinema ha senso nella sua arte è proprio nel suo potenziale rigenerativo dell’immaginario di chi guarda, da fermo, il movimento di una storia. Di una narrazione. Il Movie come esperienza totale da vivere “soli” e “insieme” al buio, nel guscio di una sala cinematografica.

Quante “cose” è stato il Cinema Santalucia, per quei tanti che hanno potuto godere delle programmazioni del Cineforum, uno dei migliori con cicli di proiezioni pensate da critici militanti e da veri cinefili. L’occasione di incontri, di condivisioni, di crescita comune per generazioni di persone che si sono succedute e confuse nella grande sala con le poltrone rosse. Momenti di mondanità sincera, di impegno misto alla gioia di poter godere di un bel film: che sensazione entrare, guardarsi intorno e sentire di dover salutare quasi tutti. Accadeva al Santalucia.
La multisala è venuta dopo, ennesimo momento di una storia lunga quanto i travagli della Vita del Cinematografo. Lì la straordinaria esperienza delle prime edizioni del Festival del Cinema Europeo con le full immersion in mondi sconosciti e in filmografie da digerire giorno dopo giorno. Memorie, ricordi che non avranno più un luogo, come non ebbe sala l’ultima proiezione realizzata all’esterno del Santalucia con un sit-in nei giorni della chiusura del cinema fu proposto “C’era una volta in America”. Già, c’era una volta… lo potremo presto dire passando da quell’angolo a San Lazzaro.

su La Gazzetta del Mezzogiorno di sabato 5 marzo 2016

venerdì 4 marzo 2016

Un corpo di tra/verso



Riccardo Lanzarone e Giorgio Distante in Codice Nero

La scena è scura quando entriamo, una madonnina dipinta ci accoglie – solita abitante dei corridoi dei nostri ospedali - al centro del palcoscenico un freddo banco di metallo; dietro, la servitù per una flebo con su appeso un camice bianco. Un quadrato delimita uno spazio simile ad una medicheria, il luogo degli infermieri, qui, il luogo dei suoni.

Penso: “Forse sarebbe utile tornare al sipario”, la scena scoperta nell’attesa che la platea si riempia lo trovo uno spreco, mi viene in mente la necessità dell’aver cura e questo sarebbe un buon modo di preservarla, la scena, recuperando la sorpresa dello svelamento, c’è da riflettere…

La sanità è il tema annunciato per “Codice nero” di e con Riccardo Lanzarone, visto ai Cantieri Teatrali Koreja sabato 27 febbraio. Tra il pubblico riconosco dei medici e di sanità sento parlare nella fila dietro me: di nomine, di direttori sanitari, di direttori generali, di piano di riordino… di amministrazione insomma, non della carne del malato, della sanità del “Io non vi posso amare” che molto bene lo spettacolo racconterà.

Penso ancora e mi chiedo: “Perché vado a teatro?”. “Per vedere gli attori”, mi rispondo. Quello mi interessa, il fare degli attori, il loro agire, lo stare, la voce, come muovono le mani, le gambe, come tengono il respiro. L’attore atleta, corridore, generoso, quello amo. Penso ancora - l’attesa è lunga per riempire la grande gradinata dei Cantieri - mi vengono in testa parole-concetto: “L’attore, la ferita, il dono”; forse è utile accentare per trovar il senso e il suono delle cose: l’attore è la ferita, l’attore è il dono. Questo mi aspetto quando vado a teatro.
E così è per Riccardo Lanzarone interprete e autore di “Codice nero”, un atto teatrale rivelatosi di rara intensità. Il corpo (i corpi dai quali l’attore entra ed esce sapientemente calibrando posture e voce), lo strumento, usato e osato per raccontare la vicenda di Salvatore Geraci, di mestiere artificiere, costruttore di fuochi d’artificio. Una vita interrotta la sua, la meraviglia degli occhi ha fatto danno agli occhi. A quelli di un ragazzo che ha raccolto un petardo inesploso, e ai suoi che, preso dal rimorso, ha smesso di “farcir cannoli” con la polvere da sparo poi anche i suoi occhi si sono ammalati… un contrappasso da scontare fino in fondo. Salvatore diventa un corpo in stand by, condannato all’attesa. “Tocca a me?”, “Tocca a me?”.la domanda che attraversa per intero l’atto. Un viaggio romantico quello di Riccardo, a ritroso nella sua storia personale, un viaggio - quello nel sistema sanitario - simile a quello di tanti altri costretti dalla malattia.

Riflessione a parte merita la medicheria… la musica e la sonorizzazione dello spettacolo, presente in scena Giorgio Distante, trombettista e sound designer, tessitore delle diverse ambientazioni con un ruolo drammaturgico nel servire l’attore nei cambi che riguardano la narrazione: Salvatore con il “costume buono”, collana d’oro al collo e scarpe a punta azzurre; Salvatore artificiere; Salvatore col padre (“affidato” ad un paio di occhiali), Salvatore alla festa di Santa Rosalia, (scena straordinaria recitata, gridata dall’attore perso tra la polvere); Salvatore malato; Salvatore promesso sposo… C’è anche il medico “tenuto” sul tavolo come marionetta sul proscenio della baracca.

Variazioni sapienti di una teatralità che si muove di traverso ai generi del “solo” in scena: narrazione, denuncia, civismo pedagogico sono cuciti da un filo sottile che da specificità e unicità al lavoro di Riccardo Lanzarone, una ricerca coltivata sin da ragazzo per scoprire cos’è la vita dopo aver sperimentato la paura di perderla.


Degno di lode il “dopo spettacolo” nello straordinario scrigno-foyer dei Cantieri Teatrali Koreja allietato dai cannoli alla siciliana giunti freschi freschi da Palermo, città natale e della prima formazione di Lanzarone e interessato dall’incontro con l’attore-autore condotto da Antonio Audino, critico teatrale de Il Sole 24 ore e curatore degli spazi teatrali di Rai Radio Tre.

martedì 1 marzo 2016

Noi, al riparo dai Giganti



Gli attori di Opera Nazionale Combattenti

«Tutte quelle verità che la coscienza rifiuta. 
Le faccio venire fuori dal segreto dei sensi»

Mago Cotrone



Luigi Pirandello è passione di molti soprattutto tra chi è al mondo più sensibile e fragile; tra loro ho trovato amore sincero nei confronti della lingua dell’autore di Girgenti e della sua complessità narrativa e drammaturgica. Compreso più adesso che nella sua triste e oscura  contemporaneità. Un'adesione dettata dalla necessità di comprendere se stessi e accogliere la propria particolarità. Sarà perché Luigi Pirandello è stato uomo inquieto, dedito a un cercare spinto sempre oltre le consuetudini della rappresentazione, autore che ha consegnato alla letteratura e al teatro la missione del “mai certo”, del continuo interrogare. Pirandello è stato maestro nella conoscenza della psiche, allenato, sin dall'infanzia a scandagliare il proprio sentire e a tirar fuori paure e fantasmi mutandoli in personaggi.
E proprio fantasmi, fantasmi in gran forma, sono quelli apparsi venerdì 19 febbraio, a Lecce, al Teatro Paisiello per la prima cittadina di Opera Nazionale Combattenti. La platea, i palchi e il loggione hanno accolto un pubblico speciale, inconsueto: «Ci son tutti» mi ha detto qualcuno «così come accade nelle grandi occasioni».
Tutti sentimentalmente coinvolti con il lavoro di Principio Attivo Teatro (qui con l’eteronimo O.N.C.) in scena con il terzo atto (mai scritto) de “I Giganti della Montagna” il dramma pirandelliano rimasto incompiuto per la morte dell’autore nel 1936, al "Mito" dei Giganti, Pirandello aveva cominciato a pensare nell'estate del 1928. Certe volte il teatro ferma la penna, rimani lì a decantare ciò che gli occhi trattengono. «A noi basta immaginare e, subito le immagini si fanno vive da sé» dice il Mago Cotrone, ma quant'è difficile esprimerle, metterle su carta, comunicarle, farle divenire atto... 
Le immagini offerte da Opera Nazionale Combattenti sono cariche di evocazioni: la compagnia di giro e i patimenti del dovere drammatico, le paturnie della prima attrice sempre in conflitto con l’altra e con tutti, se necessario e gli ammiccamenti del caratterista con la barzelletta pronta ad ammansire, sollecitando facili risate. Una tessitura fitta di parole tutte tese a significare lo smarrimento, la paura di non farcela, il continuo osare “la sbornia celeste” del partorirsi in scena. I piani di sguardo si confondono, tutto intero lo spazio è preso dagli attori che invadono il buio carichi delle loro cose e della loro desolata dedizione, alla vita, al personaggio e al teatro, emblema loro stessi del sacrificio dell’arte e della poesia nel mondo moderno. Così li voleva Pirandello, così sono in questa drammaturgia curata da Valentina Diana per la regia di Giuseppe Semeraro, così è nella realtà, dove la “qualità” dell’arte è ormai “orgogliosamente” minoritaria. La scalcagnata compagnia d’attori irrompe in corteo dal fondo della sala, la prima attrice è portata in spalla. Attori militanti, occupano il teatro prendendo in ostaggio il pubblico. Si battono per tener desto il vecchio, presente lì dove il nuovo ha la pretesa d'essere nuovo. Sappiamo che non è così. Sappiamo quanto inesauribile è la forza del "vecchio", del "classico" che diviene tale proprio perché capace di non consumare il Tempo, lo attraversa intero e per intero senza mai perdere senso, significato, valenza resistendo dalla sua posizione «agli orli della vita». Lo sappiamo noi, seduti in platea, spettatori delle “spalle” degli attori e dei preparativi di uno spettacolo che non andrà mai in scena preso com’è dall’interrogarsi sul senso stesso dell’essere attore e sul teatro, ma non lo sa il “vero pubblico” quello urlante di là dal velo del fondale che è anche un sipario. Una parabola sul destino del teatro che si scontra con un pubblico incapace di comprenderlo, desideroso soltanto di ridere con uno spettacolo leggero di ballerine e di sciantose. È stato così nella riflessione dell’ultimo Pirandello ma forse è ancora così oggi… ancora di più in Italia con il teatro costretto nell’angolo senza vero supporto istituzionale e con i “Giganti” e “servi dei Giganti” sedotti da un potere senza potere, indifferenti ai patimenti degli "scalognati " attori Straordinari in scena Leone Marco Bartolo, battitore libero con la sua canzone prologo e autore delle sonorizzazioni; Dario Cadei nei panni di un lunatico Cromo, il primo attore; Carla Guido che è Ilse, la Contessa«coi capelli sparsi, color di rame caldo» Otto Marco Mercante, il Mago Cotrone, l’ospite; Cristina Mileti, Diamante, la seconda donna; Giuseppe Semeraro, il Conte impresario, col patrimonio perso per amor dell'arte e per compiacer la moglie. Tutti bravissimi carichi nel “travestimento”, credibili e appassionati in una scena sempre tenuta sul bilico del “teatro nel teatro”. Un plauso merita il sapiente disegno luci di Fabrizio Pugliese.