giovedì 30 giugno 2016

"Sine corde" di Valerio Daniele





Da quanto tempo inseguiamo una forma contemporanea della canzone tradizionale salentina? Da tanto! In tutto questo tempo, Valerio Daniele è stato (ed è) artefice che molto più di altri ha accudito e dato andature a questa corsa.
Ho da giorni sul tavolo, presente all’ascolto, “Sine Corde – Ballate salentine d’altri tempi”, cd prodotto da Anima Mundi Edizioni; la custodia cartonata ha colori di terra e di cielo, illustrata da Egidio Marullo e composta da Valentina Sansò. Nelle tracce le voci di Rachele Andrioli, Alessia Tondo, Enza Pagliara, Assunta Surdo, Dario Muci, Rocco Gaetani, Ninfa Giannuzzi, Emanuele Licci, i suoni di Giorgio Distante, Marco Stanislao Spina, Roberto Gagliardi e le corde si  Valerio Daniele.
Distillare suoni è l’arte di Valerio Daniele intellettuale, fine chitarrista e fine produttore di suono. Scrivo intellettuale perché tale lo considero, confermato dalle sue tante prove, dalla sua sensibilità pensante che muta nel corpo suonante, questo il suo approccio alle cose della musica - il suo suono e quello degli altri da cui si fa abitare per meglio “tradurlo” nella scrittura discografica. L’intellettuale contemporaneo non è quello della parola, della scrittura, del monito e del dettato, ce ne sono pochi rimasti lucidi. L’intellettuale contemporaneo si incarna nel fare dell’arte, mai come in questo momento l’unica capace di muovere e rinnovare linguaggi e segni politici.
La limpidezza caratterizza il lavoro di Valerio Daniele, un abbraccio chiaro alla materia–natura della musica. Nella ricerca più radicale, messa in campo con l’esperienza di Desuonatori (straordinario l’ultimo “Acqua minutilla e ientu forte” inciso da Daniele con Giorgio Distante) e nel suo dedicarsi alla tradizione che trova nelle sue corde una declinazione vivificante.
Significativo è ciò che scrive Valerio nelle note che accompagnano “Sine corde”: “La tradizione è un campo aperto, uno spazio ricco di vuoti. Vuoti che accolgono. C’è sempre spazio per nuovi suonatori e nuove voci, per interventi appassionati. Le lunghe nottate a suonare senza scopo, tra noi, in un tempo che ora sento lontano, quasi mitico della mia vita, mi illuminarono sul fatto che quella musica avesse il suo cuore non nelle pur straordinarie melodie di cui è ricca, né nelle infinite possibilità armoniche che da quelle melodie potevano scaturire. Il senso era altrove, in un luogo senza tempo fatto di storie piccole, di lavoro, di dolore, di pensieri e slanci. In una dimensione umana tanto quanto divina, proprio in virtù di quella perfezione della fatica, della ruga, del decoro quotidiano. Ma il senso era anche nel vivere quei momenti insieme, suonando in cerchio, dicendosi cose attraverso melodie e accordi che altrimenti sarebbe stato impossibile dirsi. Il suono di questa musica è scarno, è vuoto e viaggia nel pulviscolo. Ha le catene della carne e i guizzi della disperazione. E deve restare così, libero, sciolto il più possibile da strutture e ordini sequenziali. Ricco, ricchissimo ma del vuoto e dell’accoglienza che per sua natura incarna”.
Ecco, non vi pare un ragionare denso di pensiero e di storia? Ricco di suono e di sensibilità. Una tessitura emozionale che sa volgere lo sguardo alle contingenze, alla materia del suono e all’umano sempre protagonista del fare musica.

Novoli, Teatro del Fuoco



In questi giorni con Spagine abbiamo voluto rieditare in stampa anastatica la ricerca di Domenico Maurizio Toraldo “Il Teatro di Novoli. Un secolo di storia”. Oggi il Comunale Novolese – temporaneamente chiuso per lavori di miglioramento tecnico - è oggetto di dibattito… Quello che segue è il mio contributo pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno di martedì 21 giugno 2016.


È sempre complicato intervenire nello specifico di un dibattito che interessa una comunità cittadina, ma le “cose”, quando riguardano la cultura e i suoi contenitori, riguardano un po’ tutti, specie se, la comunità interessata è al centro, almeno una volta l’anno (ma è solo per esagerare che scrivo questo, certo non è così) della cronaca culturale locale e nazionale. Parlo di Novoli, luogo della grande Focara d’autunno e del dibattito che in questi giorni riflette sull’attribuzione del Teatro Comunale a Mario Teni, un commediografo locale. Ci sono molti esempi di Teatri Comunali intitolati a personaggi più o meno noti, non guasta, ma ragionando intorno alla natura del teatro novolese percepisco la possibilità di un diverso operare in questo senso.
Credo che la materia dello scrivere e del fare teatro sia il “fuoco” che arde nel drammaturgo e soprattutto nell’attore quando, in scena, porta in dono se stesso al pubblico. Quale migliore occasione allora per dedicare proprio al Fuoco (e all’attore) il teatro novolese? Un legame con l’Evento di Gennaio che si ripeterà ogni volta che il nome del teatro verrà citato per annunciate una rassegna, uno spettacolo, un appuntamento, una produzione.+
“Teatro del Fuoco”, mi pare “suoni” bene, specie in questa nuova fase della storia del Comunale novolese divenuto, con l’iniziativa di Teatri Abitati, residenza di due importanti realtà territoriali: Factory Compagnia Transadriatica e Principio Attivo Teatro esempio virtuoso, le due Compagnie, di fare teatro e di fare comunità teatrale. Realtà, che con le loro produzioni calcano i teatri nazionali e internazionali riscuotendo successi, premi e riconoscimenti. Due realtà tese non solo alle loro produzioni (e un teatro è importante se è luogo di produzione e non solo di rappresentazione) ma soprattutto alla proposta di Cartelloni capaci di dar pregio e unicità al Comunale, attraendo pubblico da tutta la provincia leccese e non solo.
A Mario Teni si potrà dedicare ad esempio la bellissima saletta di esposizione posta in alto, sul loggione, che rappresenta una possibilità importante e bella di esposizione, un fiore all’occhiello del teatro se animata con gusto e creatività.
C’era un tempo, la buona abitudine, di issare targhe sulle mura dei teatri per ricordare le persone legate al lavoro della scena. Le targhe commemorative, i monumenti, i busti in marmo - come scrive Hermann Hesse nel suo straordinario “Pellegrinaggio in Oriente” - servono a rallentare il cammino delle persone, a destare e a tramandare memoria, sostando al loro cospetto. Mi auguro allora, che sulla facciata del teatro possa essere posta una targa per ricordare Teni e quanti altri hanno contribuito alla storia culturale di Novoli e del suo bel teatro.
*Operatore culturale Fondo Verri

Porca Puttana Pasolini! Che spettacolo!!!




di Mauro Marino

Pasolini mi guarda, la mascherina col suo volto consegnata a fine spettacolo è sul tavolo. Preziosa e muta mi riporta i suoni sentiti, le emozioni, le ferite aperte e chiuse da uno spettacolo fuori dall’ordinario, interpretato da attori atleti del corpo e della parola, speciali nella loro generosità ed efficaci nel rendere l’intimo senso del dettato pasoliniano. “PPP. Passione, progione, pietà e/o Porca Puttana Pasolini” è il titolo dell’“omaggio a Pasolini, al suo essere uomo tra gli uomini” portato in scena dalla Compagnia Io ci Provo all’interno delle mura della Casa Circondariale di Borgo San Nicola a Lecce. Uno spettacolo itinerante tra corridoi, celle, rampe, cortili della sezione femminile, vissuto in piedi di quadro in quadro da venti spettatori per volta, due repliche al giorno dal 6 all’11 giugno.
Il teatro si conquista lo spazio, l’agibilità e lo sguardo: questa è la sfida, sempre, da sempre. Una regola per il teatro fuori che vale molto di più per il teatro vissuto e costruito all’interno di un carcere.
“Fuori” e “dentro” qui si sovrappongono, l’atto libero del teatro muove la voce, spinge il gesto e la libertà la senti, la vedi nell’energia del corpo che hai di fronte, vicino: un corpo recluso, “costretto”, ma non domato, mosso all’attacco nella regola del provarsi sul bilico della rappresentazione. “Fuori” e “dentro”, in sé, fuori di sé e nell’ascolto dell’altro in un flusso di reciprocità.
Entriamo in gruppo, a piedi, in questa porzione di città sempre più presente nella vita culturale della città. Nel primo quadro un grande e pesante cancello ci separa dagli attori, sono due naufraghi stesi in un gommone, indossano delle giubbe salvagente. Guardano il cielo, uno chiede: “Eee… e che so’ quelle?”; l’altro risponde: “Quelle sono le nuvole”. “E che so’ ‘ste nuvole?”; “Bho!”. “Quanto so’ belle! Quanto so belle!”; “Ah straziante meravigliosa bellezza del creato”. In sottofondo Domenico Modugno canta “Tutto il mio folle amore, lo soffia il cielo, lo soffia il cielo…” e loro, meravigliati, ripetono il testo di prima in albanese, la loro lingua. In ciò che rimane sospeso, nel non detto, le storie, la loro vita, le storie e la vita di tanti altri, e noi, saremmo dannati, se non li amassimo, d’un “folle amore…”.
È immediato l’innamoramento per questo nuovo lavoro diretto da Paola Leone assistita dal suo ormai storico sodale Antonio Miccoli. Già dal primo quadro percepisci la forza espressiva raggiunta da questa straordinaria ed unica compagnia di teatro. I livelli di empatia raggiunti, la considerazione della forza dell’atto teatrale, la necessarietà della comunicazione artistica per lenire e sanare la condizione detentiva e renderla “regale” occasione di riscatto e di nuova consapevolezza. Ma al di là di questo, ciò a cui assistiamo è teatro; vero teatro messo in scena da attori, solo quello: attori nel disincanto proprio della lingua di Pasolini. In quel “Bho!” c’è l’abbisso, la vertigine… Quelli di fronte sono i ragazzi di vita, son della pasta della strada, di quel margine e di quello stupore, da lì vengono per farsi attori e attori sono adesso.
Entriamo in una cella piccolissima uno ci racconta del suo viaggio al nord e del “miracolo dei gelati” e pare di assistere ad un frammento de “La Ricotta”; entriamo in un’altra cella, l’incorreggibile guarda il suo televisore, con la musica di Lupin. Ci accoglie così, poi spegne il Tv e racconta di una fuga da casa verso Bologna in cerca di facili guadagni… Poi siamo in una classe dove campeggiano sulla lavagna i versi:  “Ah, borghesia sì, vuol dire ipocrisia: ma anche odio. L’odio vuole la vittima, e la vittima è una”. Già, una. Quella a cui i compagni fanno scherno negando la condivisione della merenda… gesti semplici, carichi, in assoli che si susseguono fino alla catarsi finale del boxeur, del cortile vuoto che accoglie la voce di Pasolini in “Supplica a mia madre”, con in alto le donne alle finestre, dietro le grate, a lanciar leggerezza in forma di petali e la partita di pallone senza pallone in un altro metafisico cortile aperto solo al cielo, solo lì libero… In ultimo le voci di Ninetto e di Totò: “Ma qual è la verità? È quello che io penso de me? È quello che pensa la gente, o è quello che pensa quello là, lì dentro? (e Ninetto nel film indica il burattinaio)”. “Cosa senti dentro di te? Concentrati bene. Cosa senti, eh?”. “Sì, sì… si sente qualcosa che c’è!”. “Quella è la verità! Ma, ssssh… non bisogna nominarla, perché appena la nomini, non c’è più”.
Qui la verità c’è, quella della carne nel teatro, dove il giudizio è impossibile perché magnificato dalla bellezza.