Un bozzetto di scena di Guglielmo Scozzi |
Il
cielo è buio, stelle e stelle, la campagna, appena lasciata la strada statale
275 alla rotatoia per Tricase, ridiventa campagna dirigendosi verso
Castiglione.
Il
buio è buio, le stelle stelle e ancora salva pare sia la dimensione del piccolo
villaggio dove è ancora concesso a due attori di ritirarsi a studiare; dove
ancora le relazioni misurano il possibile e la palestra di una scuola comunale
riempie le assenze destinandosi al teatro per volontà di un sindaco illuminato,
come lo fu il postino di Holsterbo che diede casa all'Odin Teatret. Giorni e
giorni di prove, tanti... per questo "Waiting for Job_resistere è
amare" portato in scena da Antonio Palumbo e Manuela Mastria al debutto
con Hana-do Teatro.
E
allora, se il teatro è atto che si incarna nel fare dell'attore, l'opera prima
a cui abbiamo assistito lo scorso sabato 12 settembre, accolti in uno spazio di
"sacrificio" - un capannone in disuso della della Cooperativa Nuova
Contadina di Andrano - è certamente teatro.
Finalmente
una scena libera dalla narrazione. Una scena colma di poesia, dove il verso si
declina con l'intero del corpo e l'agire teatro riconquista il suo
indeterminato per farsi pura visione.
Un
recinto scarno, in piano, essenziale, tagliato in un perimetro imbiancato come
su una tavola da disegno (i bozzetti preparatori, realizzati da Guglielmo
Scozzi, raccolti in un album, possono essere guardati seduti su una sedia
allestita su una bascula alla fine dello spettacolo). Pochi i colori: bianco
nero, grigio, avana, rosso, la lucentezza del metallo della "porta"
che limita lo spazio sul fondo e la cenere che via via tutto ricoprirà...
Abbandonarsi
per cinquanta minuti, per i "viziati" di oggi non è facile, ma il
teatro chiede allo spettatore proprio questo: sospendere il giudizio e farsi
desti. Darsi interamente al dono.
Ecco,
schiara, appare... Fare la scena, dis-farla, menare colpi precisi, calci,
pugni, spinte, lotte per sostanziare con i rumori e con i suoni (il tema
musicale è di Gaetano Fidanza) ciò che lo sguardo coglie, come quello più
piccolo del frantumarsi tra le dita dei gusci di arachidi, gesto che torna nel
corso dello spettacolo, come un acquietamento, uno scandire il tempo delle
attese, di attimi eterni, come eterno è il tempo che ci separa da Giobbe e
dalla terra di Uz dove egli viveva. Giobbe è la prova con cui si confronta la
drammaturgia di Palumbo: l'uomo integro e retto, simbolo di giustizia e di
pazienza, temeva Dio ed era alieno dal male con rassegnazione sopportava
molestie, ingiustizie e tribolazioni, personificazione del giusto che soffre
mentre i malvagi prosperano, e che tutto sopporta inchinandosi al volere di
Dio. Un uomo caparbio nel suo resistere. Come adesso noi... Come questo teatro
che nonostante tutto, osa: "La lingua muore. S’inarca e grida fino a
tacere. La sfida è dimenticare, cadere. Cadere e dimenticare. Dimenticare e
cadere (...) Tutto tace. Non si vede anima viva. Nessuno a cui chiedere. Il
mondo mangia il mondo. In silenzio. Il vento, fuori, muove qualche ricordo tra
i rami. Un gelso, l’albero che salivamo per addolcire le labbra e toccare il
cielo. Ma tutto tace. Anche il cielo, di là, che rincorri affamato...". Questa
la condizione dei "sensibili" nel nostro tempo... A quest'allerta il teatro ci chiama.
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