di
Mauro Marino*
La Cultura è la
materia che fa la vita: chi siamo, come ci vestiamo, ciò che scegliamo di guardare
- in televisione, al cinema, nelle vetrine dei negozi - di ascoltare, leggere,
mangiare; quello che ci attrae per strada, quello a cui aspiriamo, è frutto del
modello culturale che, volenti o nolenti, ci forma individualmente e come
comunità. Qualcuno ha scritto: “Il Virus è un ottimo maestro se lo si sa
ascoltare”, anch’io lo credo. Ciò che ci è accaduto con la quarantena, ciò che
ancora ci coinvolge, è una straordinaria occasione di cambiamento su cui
bisogna riflettere e lavorare - alla pari - affinando la nostra capacità di
ascolto nell’accogliere l’altro, le sue necessità e per dare contenuti ad una
reciprocità da sperare fattiva e virtuosa per il domani. Questo è un momento storico
fortemente “culturale” perché è proprio un modello culturale che è entrato in
crisi, tentare di mutarlo è necessario, vitale. Non capitava da tempo, in
maniera così epocale e radicale, nel chiedere agli uomini impegno e
responsabilità; non capitava dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. È stato quello
un momento in cui l’umanità piegata - ferita dall’arroganza sanguinaria delle
dittature, dalla scelleratezza della guerra, dall’oscenità dei campi di
sterminio e della bomba atomica - è stata chiamata ad agire e a muovere ogni
energia possibile per dare forma e concretezza alla rinascita. Certo, è durato
poco, lo spirito di solidarietà e fratellanza non ha avuto il tempo di
germinare e di radicare. Lo sappiamo, la Storia non è mai maestra e ciò che è
venuto dopo non ha fatto altro che confermare che “fraternità” e “solidarietà”
sono valori fragili di fronte ai privilegi del potere, della supremazia e dello
sfruttamento. Una fragilità che a permesso alle élite di affinare strumenti di
controllo, di orientamento delle persone e dell’opinione pubblica, nei consumi,
nel pensiero e dunque nelle scelte culturali. Anche fatti gravi, terribili - come
le guerre nei Balcani, quelle in Medio Oriente, le Torri Gemelle, il disastro
africano - sono serviti a poco dal punto di vista della creazione di una
coscienza e di un sentimento sinceramente comunitario dimostrandosi - con tutto
il loro portato drammatico - solo utili a rinvigorire divari conflittuali e
politiche securitarie, nutrendo nuovi fascismi e sovranismi.
Oggi, l’intero pianeta,
è chiamato a confrontarsi con l’invisibilità di un virus e il Mondo della
Cultura (lo scrivo maiuscolo per significarne la complessità) è chiamato a
interrogarsi sui contenuti che vorrà condividere, nel presente e nel prossimo
futuro, con le persone - non con il pubblico, con gli spettatori - queste sono categorie
che appartengono al passato, ma con i compartecipi dell’atto culturale.
Dobbiamo dare prospettiva
alle ragioni di una Cultura che deve avere la virtuosa pretesa di rifondare la
convivenza umana, la relazione uomo natura, la responsabilità verso la “casa
comune” che chiede di essere ascoltata, rispettata, curata.
Bisogna recuperare uno
sguardo dolorante sulle cose, fare critica, essere crudeli anche, frontali,
schietti, essere la voce di un immaginario capace di farsi carico delle ferite
inferte alla terra in anni e anni di scellerato sfruttamento delle risorse naturali
e degli uomini. La memoria potrà essere utile alleata nel delineare percorsi
volti alla ricerca e all’approfondimento tematico, abbiamo esempi profetici - di
intellettuali, di artisti, di poeti, di politici - di grande valenza teorica,
poetica e operativa, dimenticati, esclusi, spesso denigrati dalle vulgate che
si sono avvicendate nel dare linfa alle Mode, alle Tendenze, al Consumo.
Ma ciò che più d’ogni
cosa il Virus può insegnarci è il ritorno ai territori. La riflessione sulla e
nella casa, il riprendere il filo di sé, nell’attesa del “liberi tutti”, ha
certamente reso sensibili anche i più coriacei (speriamo). Compito allora degli
Attori Culturali è quello oggi di farsi carico di quei valori, di quelle
esperienze, di quelle vite che nella lateralità hanno costruito la qualità dei
territori, la loro rilevanza poetica, la loro particolarità, per nutrire un
sentimento di comunità capace di declinare un Noi, ampio, al servizio della
Terra e di chi la abita. Così come si è messo ordine alle foto di famiglia, ai
file persi nei PC, alle carte d’una vita così è bene operare per rendere leggibile
il passato in virtù di una nuova narrazione culturale che ponga in primo piano
i valori sconfitti, sia motivo di lotta, di proposta politica, di un agire
culturale e sociale volto all’umano per promuovere nuova umanità. Se falliremo
non ci sarà più futuro, se prevarranno le ragioni economiche, del rimborso,
della paghetta, della quantificazione della perdita, non ci sarà più futuro. Lo
Stato deve tornare a fare lo Stato, la cultura deve aiutare, deve produrre l’humus
necessario, a sostenere con umiltà, rigore e speranza la crisi economica che si
prospetta, non per alleviarne il graffio ma per renderlo rigenerante.
* La Gazzetta del
Mezzogiono, 10 maggio 2020
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