Lecce ambisce alla “tutela”
dell’Unesco, la città barocca - sempre speranzosa - cerca di mettere ordine dove
ancora ordine non c’è, sognando un futuro pari a quello della città ereditata, immaginata
nella sua particolarità secoli addietro. Diventare “città patrimonio
dell’umanità” significa prima di tutto rispettare delle regole. Ce la faremo?
Chissà! In altre “competizioni” nonostante le energie profuse non abbiamo
ottenuto buoni risultati, certo si può sempre far meglio, ma l’impressione è
che la città non sia veramente pronta. La professoressa Tatiana Kirova - membro
permanente della Commissione che si occupa della valutazione della candidatura
dei siti - visitando nelle settimane scorse la nostra città ha
sottolineato i ritardi del territorio nel fare “filiera”, nell’elaborare uno
sguardo d’insieme capace di unire le risorse e le bellezze di Lecce e del
Salento per proteggerle dalla schiaffo a cui ogni giorno sono esposte. Ahimè,
ha ragione! Ed ha ragione anche quando mette insieme la città capoluogo e la
sua provincia, perché quest’insieme è il patrimonio da sottoporre
all’attenzione dell’Unesco. L’intero Salento con i suoi alberi, le sue pietre,
le sue città prefigurando e agendo una politica culturale e turistica di alto
profilo. Così oggi non è! L’industria turistica è diventata la chiave di una
svendita che non ha regole, anzi no, una ne ha, è lo strillo del “venite,
venite, venite, siamo qui a calarci le braghe. Faremo strade sempre più larghe,
(dimenticando di far manutenzione per le esistenti), assomiglieremo a Rimini e
le nostre spiagge saranno sempre più a portata d’ombrellone” e via via di
scempio in scempio.
Rimarremo incompresi, perché i
viaggiatori, quelli veri, (e i commissari dell’Unesco) preferiranno i vecchi
tratturi se mai ne resteranno, vorranno annusare il timo e il finocchietto e andare
a scovare un dolmen o un menhir se mai ci ricorderemo di proteggerli. Gradiranno
l’ombra di un ulivo o di una Vallonea leggendo malinconici i racconti di Cosimo
De Giorgi sulla Grande Foresta di Lecce. La malìa di qui, noi vogliamo
cacciarla via e loro, i viaggiatori (e i commissari dell’Unesco), quella vogliono
trovare. Un Salento magnifico, intatto, misterico, sospeso “tra il meraviglioso
e il quotidiano”. Quello sì meriterebbe la tutela dell’Unesco.
C’è ancora, lo trovi se sai
cercare, qualcosa è rimasto, nascosto, laterale, dimenticato, ancora intatto. Ma
per quanto tempo ancora? Se alzi lo sguardo l’incuria è tutto intorno,
minaccia. E allora ben venga l’Unesco se significa disciplina, rispetto, regole
per cercare di far riparo a ciò che resta. Per imparare a sentirsi “filiera
virtuosa”.
Non è solo essere di un luogo,
abitarlo, attraversarlo, non è solo quello. La prossimità con l'altro e con il territorio
che “accoglie” deve diventare sentimento culturale. È snob far finta d'essere
oltre, di sentirsi cosmopoliti senza aver profondo sentore e sentimento della
Terra-Casa. Non funziona, non può funzionare nel divenire e nel farsi degli
“atti culturali”, quegli atti che compiamo nella consapevolezza di dare
continuità e futuro al sentire della comunità che ci “abita” e che abitiamo. Il
dettato identitario è stato (e ancora è) sovraesposto in esercizi che hanno
trasformato il progetto per il territorio in mero marketing, esercizio che
spesso si traduce in usura di risorse che svuota e deprime l'essenza e
l'essenzialità di ciò che è utile alla costruzione del futuro. Ma questi sono
discorsi che difficilmente oggi trovano orecchie capaci di accoglimento. Il
trend va da un'altra parte: è quello di un'economia che non ha riguardo per i
valori di conservazione e per le reali necessità territoriali e questo, un
commissario Unesco sa guardarlo e sa anche giudicarlo.
La Gazzetta del Mezzogiorno 11 dicembre 2015