di Mauro Marino
C’è stato un Salento
senza ulivi? Certo, c’è stato. C’è stato il Salento dell’oleastro, quello
raccontato da Ovidio, nelle Metamorfosi: le villanìe, gli insulti osceni
proferiti da un pastore sconcertarono le Ninfe messape, loro danzarono e
l’incantesimo trasformò l’incauto in albero, frutti amari i suoi, l’asprezza
del linguaggio trapassata nelle bacche dell’oleastro. Una terra di grotte, di paludi
e di canne; una terra coperta di boschi, di querce; una terra selvatica. Poi,
vennero i Basiliani in fuga dall’Oriente, cacciati dalla furia iconoclasta e,
piano piano, con la loro opera paziente il Salento mutò la sua natura, s’è
addomesticò, si fece produttivo nel nome dell’olio e del vino.
Una vocazione agricola
conquistata con grande fatica. Non è facile il Salento, non è stato facile, le
pietre - alzate a fare altari e menhir, a fare rifugi e muretti per chilometri
e chilometri - ce lo ricordano ogni volta che il nostro distratto sguardo trova
“quiete” nel paesaggio. Un suolo pietroso, aspro, arso… conquistato a fatica.
Forse ancora da conquistare nella sua tenuta, bisognoso com’è di continua cura,
di “manutenzione”. Non è facile il Salento, non è stato facile e non lo è
ancora. Pensiamo ai grandi latifondi tenuti incolti, alla fame dei più miseri,
alle lotte per il riscatto della terra e del lavoro… Quanto, è accaduto!
Oggi immaginare un
Salento senza ulivi è impossibile ma l’immenso patrimonio olivicolo è in
pericolo. “Fastidiosa” si chiama la Xylella. Virulenta aggiungerei anche vista
la velocità con cui il batterio si diffonde sul territorio: 23mila gli ettari
di uliveti colpiti, milioni le piante prese dal “morbo” - molte sono piante
centenarie, alcune millenarie - un patrimonio unico, irripetibile. L’allarme –
come costantemente accade – è stato colto con grave ritardo dalla
responsabilità politica. Sono trascorsi almeno tre anni dai primi allerta, ed è
solo grazie alla volontà e al volontarismo di alcuni se si è compreso quanto
stava accadendo a quegli alberi che, pian piano, han preso a mutar colore - il
verde-argento delle foglie s’è fatto bruno - presi da una sindrome di
disseccamento rapido.
Adesso è allarme
rosso, tutti mobilitati ad immaginare linee di difesa, aree di quarantena… Si
lavora e si spera non senza contraddizioni perché, con leggerezza, si sceglie
anche di espiantare centinaia e centinai di alberi per far largo al cemento,
per aprir strade, per dar spazio al turismo, al business, alla rapina. Bha! C’è
da rimanere basiti riflettendo su queste “scioccherie” come se l’ulivo non
fosse sempre l’ulivo e ‘hai voglia’ a pensare di ripiantare… Andate a contemplare
la pena dei trapianti, il dolore che suscitano in chi guarda le assurde
amputazioni: gridano quegli alberi. Gridano! Si vendicano quegli alberi. Si
vendica la natura…
Giorni fa qualcuno ha intravisto
la possibilità di un “miracolo” nel tentare di porre rimedio al “guaio”: le
acque di vegetazione - le acque reflue derivanti dalla lavorazione dell'olio di oliva,
ricche di fenoli
e polifenoli
con spiccate proprietà antimicrobiche e battericide - sembra possano far da barriera
al diffondersi del male. Se così fosse sarebbe poesia: “l’olio salva l’ulivo”.
Una bella parabola, un monito per chi spera di poter speculare su questa
ferita. Il problema non riguarda solo gli olivicoltori (risorsa di un’economia,
la nostra, in cerca della sua particolarità) ma tutti noi. Tutti noi siamo -
dobbiamo imparare a considerarci - custodi temporanei degli alberi nella
consegna che il tempo ci ha dato e in quella che il tempo ci chiede per poter
sperare un futuro Salento ancora abitato dagli ulivi.
Su La Gazzetta del Mezzogiorno di domenica 14 settembre 2014
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