mercoledì 28 dicembre 2011

Lecce sbarocca

Incontri Per “Lecce sbarocca”, di Franco Ungaro, due presentazioni


Oggi mercoledì 28 dicembre, alle 18.30, nello spazio di Lecce2.0dodici, in via Nazario Sauro 58, il libro di Franco Ungaro sarà “puntuale” pretesto per parlare della città, del suo carattere, del suo temperamento, del suo porsi agli altri, del suo essere (S)barocca: con l'autore Giovanni Pellegrino e Mauro Marino. L'altro incontro è fissato per il 4 gennaio 2012, nel Foyer dei Cantieri Teatrali Koreja, con l'Happy Hour Sabrocca che sarà condito dalla voce di scrittori di generazioni diverse che racconteranno la città, i suoi umori, i suoi personaggi, le sue contraddizioni...


Tornare a Irene

Mauro Marino


C'è la critica, certo! Quella la trovi già nel titolo che, fa “attentato” e tracolla ciò che ai più, pare certezza: la “rendita”, il lascito del barocco, che ai Leccesi pare immortale.

Eppure il “ricamo” barocco è materia fugace, è della fragilità.

La pietra è preda del vento, della pioggia, del tempo, d'una consumazione che ri-scrive l'intenzione e la fa doppia come quello sbaroccare del titolo che vuole de-strutturare la sostanza, la certezza della “leccesità” per guardarla dentro, per consumarla, se possibile...

Ma c'è anche il letterario a tessere il “politico” nel libro che Franco Ungaro ha licenziato con Besa, il suo secondo dopo lo straordinario “Dimettersi dal Sud”.

La scrittura, l'arte dello scrivere in “Lecce sbarocca” vive di attacchi. Di continuo principiare, come delle “entrate in scena”, pagina dopo pagina lo svolgimento, il continuum narrativo, è dato al lettore offrendogli molteplici piani di visione. Intersezioni di citazioni, di cronache, di note storiche, di pensieri, di racconto e anche, perché no, inizi di romanzo si mischiano e fanno corpo.

Quello che più tocca è l'elegia del passato (come potrebbe essere altrimenti... Siamo o non siamo carne romantica?).

Le pagine più belle (e più dure) quelle dell'infanzia, quelle col cavallo Lele nella casa -stalla: l'origine ha un'altra visione per Ungaro, ha il crudo contadino, quel muso duro che l'autore non ha mai smesso. Ancora più bella - se è possibile fare gara di pagine - è la Lecce degli anni Settanta – Ottanta che Ungaro descrive sospesa, materia selvatica del desiderio. Quella ancora tenuta nella speranza. Quella che solo viveva un eterno presente, senza bisogno di guardarsi in prospettiva, di nominarsi. Quella immersa nel suo Tempo e mai piegata dalla soggezione, superata quella nella sintonia, nell'essere Movimento. La musica a guida, il “media” di aperture che per intero sapevano il Mondo. Poi... con un passo che prende lena nel distacco Ungaro affresca l'oggi con le sue “conseguenze”, con le mire che non hanno occhi e il suo lavoro diventa il luogo dove poter lavare ciò che è inlavabile, le colpe son tante, è inutile ri-elencarle qui... leggete il libro... La speranza è di tornare a Irene l'antica patrona, lei sola “aveva governo” fino al 1656 poi... Un altro libro sarebbe il caso leggere a questo punto... ma non mi dilungo. Ma che sia il caso di partire da lì per tentare di capirci qualcosa della “leccesità”? E già, perchè “Lecce esagera anche con i santi protettori. Molte città ne hanno uno, solo uno, la capitale ha San Pietro e San Paolo, Lecce ne ha tre: Sant'Oronzo, San Giusto e San Fortunato. Nel Seicento ne aveva addirittura tredici...”.

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